Pasolini ha 37 anni quando intraprende su commissione del rotocalco Successo un viaggio a bordo della sua auto, una berlina millecento, tutt’intorno alla penisola: da Ventimiglia a Trieste. Fu, questo, il suo «viaggio in Italia», tracciato lungo una «strada di sabbia» sulla quale è molto più facile lasciare sì tracce, ma anche cancellarle. Sembra un Pasolini inedito, idilliaco per certi versi, felice nello scoprire luoghi e persone di un’Italia più letta che vissuta, nell’andirivieni da nord a sud. Ad essere visitate sono località balneari come Portofino, Forte dei Marmi, e giù fino a Ravello e a Ischia (assalita da cascami post-crepuscolari morettiani più che viscontiani), e risalendo l’Adriatico con soste a Rimini prima di arrivare alla Trieste «sottosopra» cara a molti.

Eppure, sul finire di quegli anni ’50, Pasolini ha già saggiato il cinema scrivendo sceneggiature, anche belle, più per sbarcare il lunario che per convinzione (almeno fino a quell’anno perché di lì a poco girerà, dopo il «gran rifiuto» di Fellini, Accattone, forse il suo film più bello ad ascoltare Moravia); Le ceneri di Gramsci lo consacrano, anche con premi importanti, definitivamente come poeta; i suoi romanzi e racconti violenti e di vita suscitano scandalo; comincia a partecipare al dibattito pubblico uscendo dai recinti, a lui già poco congeniali, dell’intellettuale votato allo studio e alla riflessione inclusiva sulla sua opera.

Le foto che lo ritraggono in abiti quasi sempre professorali lasceranno il posto a un abbigliamento più casual e modaiolo.

Pasolini sa meglio e più di altri cavalcare lo spirito del tempo che cambia, nonostante gli lacrimino gli occhi per l’innocenza perduta. Da chi? Dall’Italia, dalla sua gente, dai suoi ragazzi? Oggi che altre mutazioni sembrano cogliere impreparata l’umanità non pare più vero accanirsi sulla radicalità della visione pasoliniana e le sue evidenti contraddizioni, se osservate con il cannocchiale a rovescio della storia e non «in salsa piccante», ritrovano la loro primigenia carica di futuro e di profezia. Per iniziare nuovi discorsi. Insomma, cominciano in quel torno di anni anche i viaggi indiani e africani con lo scrittore di Agostino e de La noia, i sopralluoghi mediorientali per i film, e andando in avanti con gli anni il soggiorno americano in piena era hippie-beat e i tanti ritorni in oriente, destinati soprattutto alla realizzazione della «Trilogia della vita». Insomma, s’affaccia allora prepotente e va sottolineata pubblica, quella «disperata vitalità» che porterà il poeta-regista friulano, fino al tragico e «incongruo» epilogo, per ciò che aveva in mente di scrivere, filmare e realizzare, della sua esistenza, a percorrere sentieri e strade – come piaceva dire a Giuseppe Bertolucci – della sociologia, antropologia, linguistica, della critica letteraria e cinematografica, del giornalismo, mentre praticava con la medesima intensità narrativa, poesia, regia cinematografica, teatro (e in aggiunta sulle assi del palcoscenico ci provò anche da regista) e, più clandestinamente, pittura e disegno.

Sul reportage pubblicato e sull’originale manoscritto della Lunga strada di sabbia, sul quale possono essere letti i tagli redazionali della rivista, ha lavorato quarant’anni dopo, sfruttando coincidenze inaspettate e incontri straordinari, Philippe Séclier. Il fotografo francese serializza il viaggio di Pasolini in una serie di immagini in bianco e nero che tentano di fissare – a posteriori e con la memoria tramandata dalle foto e dal cinema del tempo (scomodare il neorealismo nel ’59 quando già viveva il suo terzo se non quarto tempo può essere esercizio quanto mai lezioso) – sensazioni forse irripetibili.

Qui le immagini sembrano suturare le ferite e profonde trasformazioni di un decennio con l’altro; il passaggio dagli anni cinquanta ai sessanta non fu indolore per la nazione.

Anzi, le foto a noi contemporanee e, allo stesso tempo, «a ritroso» di Séclier, sembrano ridefinite dall’allestimento realizzato nelle sale del nuovo Spazio Forma Meravigli di Milano (via Meravigli 5, visitabile fino al 15 novembre con il titolo La vera Italia? Due inchieste di Pier Paolo Pasolini, cataloghi Contrasto) in logica continuità temporale con le fotografie di scena scattate da Mario Dondero e Angelo Novi sul «set» di Comizi d’amore, il film–inchiesta sulla sessualità degli italiani realizzato nel 1963. Nell’osservare le sequenze, nello stupirsi nel riconoscere personaggi della levatura di Ungaretti, Musatti, Moravia (e sapere cosa risposero alle domande scomode sfrontate, forse ironicamente spudorate, di Pasolini), così messi sullo stesso piano di scugnizzi e ragazzini di borgata in trasferta al mare, leggere i dialoghi introduttivi, pedagogici, ultradidascalie alla mostra, non si può non pensare che, dopotutto e ancora oggi da quel litorale romano che ostinatamente cerca di «non essere cattivo», «il montaggio opera dunque sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita».