Cosa lega, tanto da azzardarne un confronto, Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini? Ce lo spiega Piero Bevilacqua nel piccolo libro a sua cura: Pasolini. L’insensata modernità, edito nella collana «I precursori della decrescita», diretta da Serge Latouche (Jaca Book, pp.63, 9 euro).
La spiegazione (ma il testo costringe a riflettere su molte altre questioni aperte di questo secolo) sta nelle prime pagine del libro. Dice l’autore: «Credo che accada per la seconda volta, nella storia della letteratura italiana, per lo meno in età contemporanea, che un poeta si eriga a negatore radicale dei convincimenti dominanti della propria epoca. Un eroe solitario che faccia il controcanto distruttivo dei miti e delle illusioni che alimentano l’immaginario dei propri contemporanei. Uno dei pochi intellettuali – come è stato detto – a non manifestare la benché minima fede nel progresso».
Non spetterebbe a me, che non sono un critico letterario, fare la recensione di questo libro se non fosse perché il «confronto» tra i due contestatori radicali non vertesse, nel testo, sulla feroce critica antiprogressista che animava i due poeti, tra loro pur assai diversi. Ci sono molti aspetti, descritti nel libro, che rimandano alle questioni dei nostri giorni e che ancora appaiono irrisolti.

Di Leopardi è noto come la fonte del suo atteggiamento poetico risalisse alla delusione prodotta dal disincanto del mondo: «L’arido vero», che avanza con la scienza e la tecnica, distrugge l’universo dei miti, dissolve in nulla «le favole antiche», le illusioni dell’infanzia, la poetica delle cose vissute con la verità dei sentimenti.

Il poeta «friulano» (in realtà Pasolini era nato a Bologna), fonda anch’egli la sua critica antiprogressista sulla perdita del sacro, della religiosità del mondo antico, della dimensione simbolica. Ma mentre Leopardi considera gli uomini, nel contesto più ampio della vita cosmica, un irrilevante accidente della natura, Pasolini, dice Bevilacqua, è «un uomo immerso nel suo tempo, è al centro del ring con i suoi guantoni», è un combattente, un comunista. E qui si entra nel vivo delle questioni di oggi. Pasolini non può condividere la visione desolata della vita umana di Leopardi, non ha la sua stessa solida preparazione filosofica per sostenere il conflitto e, soprattutto non può avere la medesima coerenza teorica.
La contraddizione di Pasolini si fa lacerante: «Deve volere l’avanzata sociale dei lavoratori, ma è costretto a rilevare che quel processo si incarna in fenomeni di decadimento antropologico del mondo da lui amato, di svuotamento di moralità e significato della vita stessa». Così, il pessimismo di Pasolini si fa via via più intransigente fino alla dichiarazione, qualche giorno prima della sua morte, che «in realtà il mondo non migliora mai. L’idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse». Pur aggiungendo, subito dopo, che «il mondo può peggiorare, questo sì. È per questo che bisogna lottare continuamente Non è vero che non si torna indietro. Si torna anche indietro. Ci sono state mille restaurazioni nel mondo». È una riflessione amara la sua, oggi da tenere bene a mente.

Siamo grati a Bevilacqua di averci ricordato queste ultime riflessioni cui era approdato Pasolini i giorni precedenti la sua morte. Quanto queste siano attuali, lo stesso autore ce lo descrive prendendo a modello quanto è avvenuto (e tuttora avviene) in Italia – e, in varia misura, in tanti altri paesi d’Europa e del mondo – negli anni della Grande Recessione, tra il 2008 e il 2014 di sviluppo neoliberista: nuovo lavoro schiavile, allungamento della giornata lavorativa, saccheggio della natura, distruzione di legami di solidarietà e perfino – ricorda l’autore – il furto del sonno che nella «società della fretta» è passato progressivamente dalle 10 ore alle 8 ore, fino alle sei ore e mezza. Dormiamo di meno, ma in compenso consumiamo di più.

Le parole chiave con le quali la modernità aveva annunciato il proprio avvento – popolo, soggetto, Stato, benessere, progresso – si sono letteralmente dissolte. Per Leopardi, essa coincideva beffardamente con «le magnifiche sorti e progressive» del «secol superbo e sciocco»; per Pasolini, il suo avvento era costato l’estinzione delle lucciole che per lui costituivano la «inutile bellezza» senza fini e senza scopi e proprio per questo più intimamente sacra.

Non credo che quello di Bevilacqua, nello scrivere questo libro, sia stato un esercizio di ordine teorico e culturale, tantomeno filologico, quanto piuttosto un ritornare alle radici di un percorso fatto che oggi ci appare quasi naturale e che, invece, avrebbe potuto prendere un’altra direzione, oltreché fornirci indirettamente punti di riferimento di lavoro politico.
Dovremmo ripartire dalla sacralità dei rapporti umani e con la natura; quella sacralità che, diventati moderni, abbiamo gettato nel repertorio delle cose inutili, insieme alle lucciole simbolo di una «bellezza improduttiva».