Si deve molto a Fernando Birri, cineasta, poeta e inguaribile sognatore, deceduto mercoledì 27, in piena notte, nella sua abitazione romana. Aveva 92 anni e ormai da tempo la sua salute era malferma, nel corso della sua lunga vita aveva già dato tanto e con generosità. Militante, impegnato, precursore visionario, Birri era uno dei maggiori esponenti del cinema argentino moderno, universalmente riconosciuto come il «padre» del Nuevo Cine Latinoamericano.
Il suo sguardo spesso in bilico tra oggettività documentaria e lirismo ha lasciato un segno profondo, influenzando intere generazioni di giovani cineasti fino ai giorni nostri.
Nato a Santa Fe il 13 marzo 1925, fin da giovanissimo ha assecondato la sua passione per la poesia e per il teatro. Nel 1950 si trasferì a Roma per studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia dove si è diplomato due anni più tardi e, dopo aver fatto ritorno in patria, fondò nel 1958 l’Instituto de Cinematografia de la Universidad del Litoral, fondamentale centro di studio, approfondimento e di diffusione della lezione neorealista appresa in Italia. È in questo contesto che, nel 1959, assieme ai suoi studenti, realizza il cortometraggio Tire Dié, spartiacque decisivo e opera seminale che segna la rotta per un nuovo indirizzo del cinema argentino: politico, militante, rivoluzionario e «collettivo».

 
Così Birri amava definirsi, «autore» sì, ma «collettivo», perché un film, secondo lui, non deve appartenere solo all’artista, ma all’intera squadra che ne prende parte. Con lo sguardo sempre proiettato verso il cambiamento, il nuovo, e non solo in ambito cinematografico, ma riguardo all’intera società. Non rappresentano forse una rottura con la tradizione cinematografica dell’epoca e un radicale cambio di approccio, di un diverso modo di interpretare e leggere la realtà, quei bambini che ogni giorno in Tire Dié affiancano i treni in corsa per chiedere ai passeggeri di lanciare loro qualche moneta? Non un’immagine simbolica, ma concreta: la cruda fotografia delle ingiustizie e le contraddizioni che attraversano un Paese. Ma l’intento era denunciare come il cinema, nel sottosviluppo del Latino America dia una visione distorta della realtà,quando oscura il popolo, anzi lo cancella del tutto: la funzione del documentario è proprio quella di far riemergere quell’immagine spostandosi fuori dagli eleganti salotti di Buenos Aires.

 
Spaziando liberamente tra stili e metraggi, tra documentario e sperimentazione, spesso abilmente mescolati perché non importa «incasellare» il cinema, ma «liberarlo», Birri non ha mai smesso di sfilare a fianco degli umili e degli oppressi, sempre schierato in una posizione apertamente anti-imperialista. Tra le preziose eredità filmiche che ci ha lasciato vogliamo ricordare Los inundados (1961), premio opera prima alla Mostra del Cinema di Venezia del 1962, Un señor muy viejo con unas alas enormes (1988) tratto da un racconto di Gabriel García Márquez, i documentari su Rafael Alberti e Che Guevara: Rafael Alberti, un retrato del poeta por Fernando Birri (1983), Mi hijo El Che. Un retrato de familia de Don Ernesto Che Guevara (1985), Che: ¿muerte de una utopia? (1997) realizzato per la televisione tedesca

 

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Pur restando sempre legato alla sua terra natia, Fernando Birri ha vissuto per lungo tempo all’estero. In Brasile, poi a Cuba, dove nel 1986 ha fondato, assieme a Gabriel García Márquez, la Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños di cui è stato direttore per cinque anni, fino al 1991. Infine, si è stabilito definitivamente in Italia, forse in parte per il desiderio di recuperare quelle antiche origini friulane che il suo cognome tradisce (il nonno era un contadino anarchico di Santa Maria la Longa, un piccolo paese della bassa friulana, in provincia di Udine).

 
Nel Bel paese  Birri è stato spesso «di casa» alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e al Festival del Cinema Latino Americano di Trieste, di cui era presidente dal 1985. Proprio un anno fa, il capoluogo giuliano ha ospitato la proiezione di un documentario di Lorena Yenni intitolato Birrilata. Una vuelta al tren. Un viaggio alle origini del cinema, in cui l’autrice creava i presupposti per un dialogo immaginario tra i due «pionieri pellegrini» Georges Méliès e Fernando Birri. Il primo, agli inizi del XX secolo sosteneva che «il cinema ha la capacità di catturare i sogni». Cent’anni dopo, il secondo invita le nuove generazioni a partecipare a quel sogno e a sfidare le convenzioni del pensiero dominante: abbracciando una «militanza dell’immagine» e chiedendosi, infine: «Quali sono i sogni che non abbiamo ancora sognato?».