Appare sconsolatamente fangoso nei brevi passaggi dei telegiornali utilizzati per raccontare i suoi inspiegabili scoppi di collera. Si sa che più o meno scorre lassù al nord, assediato da capannoni, allevamenti suini e villette.

Nasce dalle parti di Torino e arriva dalle parti di Venezia, e lungo il percorso vivono milioni di uomini e donne che mangiano polenta. Una rimozione coatta e collettiva che ben racconta un altro grande disperso: l’articolo 9 della Costituzione. Il Po è, nei suoi 700 chilometri di corsa, la plastica rappresentazione dell’Italia che ostinatamente non tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.

Così il mondo del Po rimane misterioso, racchiuso nello scrigno serrato dai due possenti argini maestro che gli corrono di fianco. Della sua bellezza, delle risorse e venture, solo rare parole narratrici.

Morimondo è stato rivitalizzato con massaggio cardiaco da Paolo Rumiz – lettura fondamentale per chiunque voglia vivere il grande fiume – che racconta un mondo languente sotto i colpi di maglio della civilizzazione che costringe e demolisce: niente più antichi mestieri, leggende, culture, lingue, niente più polenta con gatti e lucci fritti; tutto coperto da una colata di cemento o dragato da una ruspa.

Eppure il Po resiste. Forse proprio grazie ai suoi possenti argini, estreme barricate che respingono la razzìa umana e custodiscono gelosamente il tesoro della sua straordinaria vita. Resiste e viene riscoperto da piccoli gruppi di pionieri, ed è come se il suo limo stesse dando vita a un nuovo e più fertile Vivimondo che tenta di recuperare, di innervarsi sulla sua asta.

Ma da chi è vissuto, oggi, il Po?
La truppa di tedeschi accampatasi su un’isola del Po si sbraccia entusiasta, saluta evidentemente soddisfatta della mia umana presenza. Dalla riva dove sono sceso per un attimo di pausa intravedo nella macchia di ontani una decina fra uomini, donne, bambini e animali domestici. Pedalo da circa quattro ore: sono partito da Barricata, estremo lembo di terra piantato tra il mare e il grande fiume. Per chilometri e chilometri eserciti di aironi e fenicotteri hanno accompagnato il mio lento progredir verso Torino.
Un tizio piccolo e muscoloso dalla lunga barba bionda salta su una zattera composta da tronchi e attraversa la manica d’acqua che ci separa; a un passo da me, appena oltre la sabbia finissima, il Po scorre immenso verso est. In un secondo, io e la mia bicicletta veniamo caricati d’imperio sulla zattera e trasbordati sulla loro isola, dove vengo accolto dagli eredi di Frisi, Sassoni e Burgundi.

Grande è lo stupore generale nel momento del contatto tra la civiltà isolana e quella ciclista: io guardo incuriosito questi uomini che ricordano orde barbariche fuori tempo massimo, mentre loro guardano ammirati me e la mia bicicletta stracarica di pentole, tende, mercanzie varie, cibo, vestiti sporchi e cartine geografiche.
Mi trovo su un’isola in mezzo al Po ospite di nove tedeschi e due cani, nel cuore della produzione industriale patria, un’unica immensa megalopoli in cui scorre il grande fiume ignorato dagli italiani. Sedici milioni di persone mi circondano, ignare della loro vitale relazione con il fiume. A Cremona, sorprendentemente, un vecchio pescatore di fiume, Aldo, smentirà la mia percezione catastrofica e le rilevazioni scientifiche: «Il Po non è mai stato così pulito, puoi starne certo. Sono quarant’anni che non era così limpido: i banchi di schiuma non si vedono più e anche le colate rosse di ferro sono scomparse. Idem le pozze oleose che si formavano dopo le piene, tutto dimenticato, o quasi. La crisi ha chiuso le fabbriche e pure gli allevamenti da cinquemila maiali, anche qui a Cremona. Niente fabbriche, niente maiali, niente inquinamento. Meglio così, sono stati quarant’anni di pazzia».

Così, probabilmente, lo sfaldarsi del tessuto industriale padano ha liberato energie – oltre a qualche storione – che si sono riversate dentro la golena del Po dando vita a un popolo dai molti volti. Serena di Papozze, paesetto del Delta che briga giorno e notte per aprire un campeggio appena al di là dell’argine. Ha quaranta anni, un marito e due figli. Gestisce un accanito b & b dall’evocativo nome «La zanzara». Il suo sogno è la vedere realizzata la ciclovia VenTo, una pista che collegherebbe Venezia a Torino lungo l’argine del Po.

E poi ancora cuochi, camerieri, avventurieri, accompagnatori, educatori ambientali. Una lenta transumanza di un piccolo mondo che si è accorto che tutelare il paesaggio e il patrimonio dà pane e tulipani.

Ma le idee su come tutelare sono vaste, e spesso contorte e contrastanti. I sindaci di Po, ad esempio, sono mine vaganti. Più di uno l’ho incontrato nella sede del Comune per fare quattro chiacchiere sul fiume. Locali infelici e tristi, grigi, a volte luridi, che mostrano l’assoluta povertà in cui vivono, si confrontano nella stessa piazza con le canoniche tre banche dotate di vetri a specchio.

I sindaci allargano le braccia.
E raccontano le miserie a cui tentano di far fronte. Guidano autobus e danno il bianco alle pareti della scuola, organizzano tombolate sul fiume, polentate con cui pagare il gasolio. Così, tra un Lambrusco e una birra, rassicurati dalla foto di Mattarella appesa storta sulla parete, ci si trova dentro discorsi irreali che prevedono progetti di parcheggi e supermercati, centri di bellezza e cemento.

Intorno a me però, sull’isola dei tedeschi, la lotta dei comuni contro la povertà appare lontana, anzi inimmaginabile. La prospettiva da questo pezzo di terra coperto di verde e incastonato nell’acqua è irreale: il fiume, ad ovest di Porto Tolle nel Delta del Po, è davvero immenso e selvaggio. Unica flebile traccia della industriosa pianura padana è il suono lontano di qualche campana che batte le ore del giorno e della notte.

Pedalare lungo l’argine maestro dà la possibilità di non incorrere nel brutto. Si procede di campanile in campanile distanziati di mezz’ora l’uno dall’altro. Il fiume c’è, a volte è a un passo, ma spesso scompare, coperto da sterminate piantagioni di pioppi oppure dalla fitta boscaglia. E scompaiono anche le sue inevitabili brutture: il Po in alcuni punti è stato così compromesso da risultare inquietante. La terribile Isola Serafini e il suo doppio sbarramento ne sono l’esempio. Ma almeno fino a Cremona la civiltà moderna è praticamente assente: centinaia di chilometri senza vedere mai una tangenziale, un centro commerciale, luci al neon, sobborghi californiani, cave, dighe, sale slot e il restante armamentario legato alla valorizzazione del territorio oggi in voga.

Ma torniamo indietro di 400 chilometri: prima di me gli autoctoni dell’isola devono aver visto solo cinghiali, volpi e nutrie. Dal braccio teso di uno dei tedeschi penzola un fagiano. Ne hanno tre e stanno preparando un sontuoso banchetto in mio onore. La situazione è sempre più irreale. I fagiani, povere bestie, vengono allevati e liberati pochi giorni prima dell’apertura della caccia. Ne ho incontrati decine, uno più domestico dell’altro. Così, acchiapparli a mani nude, o sparargli con una doppietta da un centimetro di distanza non è particolarmente difficoltoso. Il menu prevede anche un bel filetto di pesce siluro appena pescato.

Mi dichiaro onorato, anche se temo molto l’incontro con il grande pesce leggendario e confido in una buona scorta di maionese custodita in una delle tende degli abitanti dell’isola. Auspicio salvifico esaudito: il siluro ha un sapore simile al fango con un leggero retrogusto di gasolio. Ma con molta maionese, è ottimo.

Un pesce predatore tipico dei grandi fiumi centro europei, il siluro si è mangiato l’ecosistema esistente. Improbabile in ogni caso che abbia potuto fare più danni lui che una diga, o una cava, o degli inesauribili sversamenti di liquami industriali o di allevamento, o delle nutrie di Giovanardi. Ma, ogni volta che si intavola l’argomento siluro, presto il piano si sposta, da epico avventuriero a sociale.

Pirati extra europei giungono sul grande fiume a bordo di chiatte e saccheggiano le acque del suo prezioso pesce dalle raffinatissime carni. I mezzi che utilizzano rumeni, albanesi, ungheresi, moldavi e russi sono uno più cinico dell’altro: dinamite, scariche elettriche, bentonite, cianuro, reti a strascico, lenze legate ai ponti. Il coro, da Venezia e Piacenza è unico. Lo straniero sul Po fa cose che gli italiani mai hanno fatto e mai farebbero.

Ma, dalle parti di Piacenza una flebile voce smentisce il coro: è Roberto, un uomo minuto di circa sessanta anni che pedala su una vecchia bicicletta “Graziella”. Dopo che i suoi amici mi hanno raccontato per l’ennesima volta la storia dei predoni del fiume, mi si avvicina e a parole scandite dice: «Sono comunista e quelli raccontano solo balle. Lasciali perdere. Dicono così perché non gli piacciono gli stranieri, mica per il siluro». Rimarrà voce solitaria del fiume: d’altronde, i comunisti non vanno molto di moda.

Cala la notte sull’isola.
Mi fermo a dormire in compagnia dei tedeschi più due cani. Anche loro, raccontano, sono uomini in fuga per qualche settimana. Rientreranno nelle loro case e riprenderanno le vite normali. Ogni anno partono alla volta di un fiume diverso, dove bivaccano per un po’. Le loro parole sul mio Paese, racchiudono tutto il Po e tutto il viaggio: «L’Italia è un paese bellissimo e bruttissimo, come questo fiume. Ma soprattutto è sorprendente constatare quanto non ne abbiate percezione. Per gli italiani il bello e il brutto non esistono, non c’è nessuna differenza».

Nel cielo scorrono le costellazioni ed Eridano si specchia lassù nello Scorpione: il Po con il buio spesso e nero come la pece aumenta la potenza della sua voce tonante, pare voglia avvolgerti e vagamente minacciarti. E con lui, sommesse e inquietanti ecco le voci di gufi e allocchi, di cui si possono vedere anche i piccoli occhi accesi dalla luce della luna piena.
Il mattino è l’ora del saluto intorno al fuoco riacceso, poi è tempo di abbracci e pacche sulle spalle. Hans mi ricarica sulla zattera e mi riporta sulla terra ferma dove riprendo la mia pedalata solitaria.

Arrivo nella mia città, Torino, dopo dieci giorni di viaggio e il Po mi appare come un esangue rigagnolo maleodorante. Penso ad Hans e alle sue tetragone parole, ma anche al popolo incontrato e rimpiango di non aver conosciuto i romantici predoni del pesce siluro.