Per celebrare la sua «resistenza» personale contro l’allora «editto bulgaro» – correva l’anno 2002 e Silvio Berlusconi da Sofia aveva appena messo all’indice tre note firme della Rai – un gigionesco ed egocentrico Michele Santoro cantò, in esordio della sua trasmissione, alcune strofe di «Bella ciao». Fu uno strazio di note, di tonalità e di ragioni ma l’escamotage dell’identificarsi con i motivi, non solo canori, della lotta di Liberazione parve funzionare. L’autobeatificazione, infatti, pagò. Berlusconi oggi sta dietro le quinte della politica, pur continuando a manovrarne alcuni settori, mentre Santoro continua a recitare sul palcoscenico mediatico la sua partitura. Pari e patta. Quasi due facce della medesima medaglia, ancorché di conio differente. Detto questo, qual è il vero nesso tra le abili comparsate pubbliche di un populista televisivo e una traiettoria, quella compiuta dalla memoria collettiva della Resistenza, nelle sue molteplici declinazioni? Più propriamente, insieme ad un’identità esiste anche un’eredità della Resistenza?

Le domande sembrano essere pleonastiche e retoriche, al medesimo momento. Poiché se per qualcuno esiste una sovraesposizione del discorso resistenziale, piegato alle esigenze delle circostanze, perennemente sospeso tra elogio di sé, celebrazione acritica e ritualismo commemorativo, dall’altro, se di eredità si deve parlare, allora è bene ricorre al plurale. Più soggetti, infatti, ne hanno rivendicato il lascito. Laddove, tuttavia, alla pluralità non si accompagna il pluralismo, trattandosi semmai della difficile, a volte quasi impossibile, coesistenza di versioni tra di loro conflittuali, o comunque competitive, in sé irriducibili a un denominatore unitario così come ad un’unica stagione. Poiché quel fenomeno storico, culturale, sociale, militare e politico che chiamiamo per l’appunto «Resistenza» è non solo una complessa somma di soggetti ed eventi, circostanze e pensieri, condotte e memorie, ma – propriamente – un campo di durevoli contrapposizioni.

Divergenti canoni comunicativi

 

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Il fatto stesso che sia entrata a fare parte, cosa a molti sgradita, del rimando all’irrisolta questione dell’identità nazionale, ne indica la sua natura di terreno di contesa. Anche il suo integrale rifiuto, non solo per parte neofascista, sta dentro questa logica, quanto meno per paradosso. Philip Cooke, docente di storia e cultura italiane all’Università di Strathclyde-Glasgow, già coautore di un interessante studio, ingiustamente trascurato in Italia, European Resistance in the Second World War, si cimenta in uno sguardo dall’esterno, ancorché decisamente immedesimato, nelle nostre vicende. Il libro che recentemente ha mandato alle stampe non a caso titola su L’eredità della Resistenza (Viella, pp. 382, euro 27), laddove è soprattutto il sottotitolo ad avere un valore esplicativo, rimandando a «storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi». Non è una storia della Resistenza quella che ci offre bensì delle sue rielaborazioni culturali, politiche e civili dal dopoguerra ad oggi. Obiettivo raggiunto adottando cinque ambiti prospettici, nei quali la storiografia fa comunque la parte da leone, pur confrontandosi con altri canoni espressivi e comunicativi: l’influenza della Resistenza italiana nell’evoluzione socio-culturale e politica del nostro Paese; la natura e la qualità dei soggetti che, nel corso del tempo, si sono incaricati di costruire una memoria resistenziale, trasformandola e trasfondendola – per l’appunto – in identità e, quindi, in eredità; il rapporto, contraddittorio e comunque irrisolto, tra la necessità di mantenere una narrazione pubblica della Resistenza, incorporandola all’interno del discorso politico ufficiale, e la sua soggettività, intesa come insieme di esperienze concrete, spesso non riconducibili ad una retorica del potere, ancorché da quest’ultima costantemente lusingata; il tema, divenuto quasi da subito, con il 1945, un’ossessione per certuni, della «egemonia» che i comunisti italiani avrebbero esercitato sulla narrazione della lotta di Liberazione; i sottili, tenaci ma anche irrisolti rapporti tra politiche della memoria e uso pubblico della storia, con identificazioni e manipolazioni, all’interno di un tessuto culturale italiano che in settant’anni è profondamente cambiato, accompagnando stagioni diverse, in competizione tra di loro.

 

Più in generale l’intero volume di Cooke è attraversato dal problema di fondo della memoria della Resistenza come esercizio di supplenza rispetto ad etiche pubbliche e a logiche di appartenenza comune altrimenti difettanti. Qualcosa che, a ben vedere, va ben oltre la questione stessa dell’antifascismo, quest’ultimo spesso ricondotto prevalentemente, a torto o a ragione, all’esperienza della lotta di Liberazione. Da un lato l’arco di tempo che va dall’inizio del settembre del 1943 ai primi giorni di maggio del 1945 è non solo periodizzante ma fondativo di dialettiche politiche e sociali che rompono completamente sia con l’eredità fascista che con lo stesso lascito liberale.

Non solo sollevazione morale

Nulla sarà più come prima, neanche con i successivi tentativi di normalizzazione. All’interno di questo quadro va allora inquadrato il complesso discorso che Claudio Pavone fa sulle «tre guerre», che sono alla radice dell’esperienza partigiana, delle sue speranze così come di molte delusioni e non poche velleità: la lotta patriottica, il confronto civile e il conflitto sociale.

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Non a caso la dirompenza dell’agire resistenziale, inteso come frattura feconda, e che come tale non può essere ricondotto alle vecchie categorie culturali, mentali e quindi politiche dello Stato unitario, ne genera l’impossibilità del riassorbimento dentro una qualche logica di continuità con il passato. I tentativi di rimandare il fenomeno resistenziale alla sua mera valenza bellica, o di «secondo Risorgimento», si ritorcono peraltro contro coloro che li esercitano incautamente. La Resistenza deve molto alla lotta armata, ma ancora di più è tributaria della rottura del monopolio della forza, quando dalla violenza degli Stati si transita all’autodifesa diffusa da parte di civili e di militari ricondottisi autonomamente al ruolo di cittadini. Qui predomina in assoluto il paradigma del ribelle, che nel rifiutare l’obbligo alla sudditanza si costruisce una propria legittimità. Con la variante che non si tratta più di colui che si fa giustizia da sé bensì di una figura che ha capacità di comporre alleanze, prefigurando un ordine nuovo, a venire.

La straordinaria vivacità resistenziale riposa in questo connubio tra ricorso indipendente, ma regolato, alla violenza, laddove essa è comunque divenuta da tempo moneta diffusa nelle relazioni sociali, e capacità autopoietica, ovvero di rigenerazione civile e morale partendo da sé. La qual cosa implica il divenire protagonisti del proprio presente non all’interno di un ciclo virtuoso ma nel momento in cui molto, se non tutto, sembra essere crollato.

Il carattere di sollevazione morale è, d’altro canto, testimoniato un po’ da tutti i protagonisti del tempo. Si trattava di reagire a quella miscela di dipendenza, cinismo, apatia e subalternità che era il vero timbro dei tempi correnti. Dall’altro lato, però, a fronte di questa acquisizione di significato sussiste a tutt’oggi un’aspettativa irrisolta, quella per cui la Resistenza avrebbe dovuto produrre un plusvalore politico capace di fondare daccapo la nazione. L’infruttuosità di tale attesa sta nel fatto che, come attesta ripetutamente l’autore, la lotta di Liberazione si articola invece come fenomeno stratificato, composto di molti elementi, all’interno di quello che può essere definito come un triplice quadro storico e politico: la problematicità del coinvolgimento dell’Italia, non solo di quella fascista, in una guerra di conquista e di sterminio, trasformatasi poi in un lacerante, estenuante e rovinoso conflitto interno, combattuto per due anni sul territorio nazionale; la fascistizzazione sistematica, ancorché incompiuta, delle amministrazioni pubbliche, di una parte delle istituzioni e della stessa collettività, quest’ultima sottoposta ad un processo di nazionalizzazione e di massificazione che avrebbe lasciato segni tangibili nel lungo periodo, anche a distanza di molto tempo dal definitivo tramonto del regime; la rigenerazione di uno spazio pubblico, quello della politica, dove i partiti di massa avrebbero supplito all’intrinseca fragilità della democrazia italiana.

Cliché da combattere

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Il repertorio storico, ovvero l’insieme degli eventi che dalla fine della guerra giungono ai giorni nostri, così come l’azione storiografica, intesa nel suo essere riflessione critica sul modo in cui il Paese si racconta in rapporto alla rottura resistenziale, testimoniano del valore simbolico che essa ha per tutti, sconfitti compresi. Ma proprio per questo, al medesimo tempo, storia e storiografia indicano come per sua intrinseca natura la Resistenza non possa costituire l’elemento di coagulo tra identità e soggetti la cui ragione d’esistere si pone nella diversità competitiva, non nella convergenza prospettica. Da ciò deriva anche l’inconsistenza, a tratti quasi truffaldina, comunque manipolatoria, dei rimandi ad una presunta «vulgata» dominante, al «mito della Resistenza» come falsificazione deliberata, al «paradigma antifascista» come ad un obbligo imposto, per arrivare alle riletture capovolte di un Giampaolo Pansa. Sono cliché molto diffusi, che Cooke controbatte ripetutamente. Non per restituirci una linearità che egli stesso identifica come priva di fondamento ma per dare semmai corpo alla discontinuità di cui la lotta per la Liberazione rimane deposito.

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I seicento e più giorni della Resistenza hanno infatti messo in luce proprio questo: di contro alle letture acquiescenti, pacificatorie, quietistiche, compromissorie, che si sono imposte nelle diverse stagioni politiche della Repubblica, si contrappone ad esse un nocciolo, quello del conflitto, materiale e simbolico, tra interessi contrapposti, il quale ricompone lo spazio politico, dandogli una sostanza che lo sottrae alle egemonie delle vecchie élite. Poiché la lotta di Liberazione ha portato alla luce, una volta per sempre, anche al di là delle medesime retoriche apologetiche, il fatto che democrazia si dà laddove c’è politica e politica è, per definizione, lo spazio delle relazioni conflittuali. Nel modo in cui si perviene a mediazione di esse si gioca la natura e il senso di ciò che chiamiamo libertà.