Il nuovo film di Yotam Feldman The Lab, «Il Laboratorio», ci introduce agli uomini che hanno fatto dei territori occupati palestinesi il più grande e il più avanzato laboratorio per il collaudo di armi: agli spacciatori e imprenditori di armi, agli esperti di difesa e ai leader del settore.
Nonostante il desiderio di confrontarlo con altri documentari israeliani che di recente hanno mostrato la vita segreta delle persone che gestiscono l’occupazione (come The Law in These Parts e The Gatekeeper), The Lab è soprattutto un film sulla conoscenza. Conoscenza della sicurezza creata nella zona duttile tra due dimensioni separate da una linea molto sfocata: i militari e il mercato.
Al primo livello, la trama di The Lab adotta l’affermazione di Naomi Klein che la ragione principale per la prosperità economica di Israele in un periodo di instabilità politica e di crisi globale risiede non nel proprio capitale umano eccezionale che consente di evitare agevolmente le ripercussioni economiche negative, ma piuttosto nel prosieguo dei conflitti regionali. Nel video The Shock Doctrine (realizzato dopo la pubblicazione del libro The Shock Economy, ndr), Klein dimostra che la maggior parte della crescita economica di Israele può essere attribuita al settore della enorme industria della difesa, che è diventata la principale industria di esportazione di Israele, in particolare dopo l’11/9 (nel 2012, Israele è stato classificato come il sesto più grande esportatore di armi al mondo).

L’attivista canadese sostiene anche che la West Bank e la Striscia di Gaza non sono solo le prigioni a cielo aperto più grandi del mondo, ma anche il più grande laboratorio per il collaudo del mondo, dove «i palestinesi non sono più solo gli obiettivi. Sono le cavie».
Per Feldman, le recenti campagne militari, principalmente l’Operazione Piombo Fuso, illustrano come la natura della guerra si sia trasformata: da una turbativa temporanea che comporta danni alla vita e alla proprietà, a una situazione fissa, redditizia. Così, il film inserisce altre voci che cercano di valutare per la società israeliana i profitti derivati dall’occupazione e non i costi presunti.
La vera forza del film viene disvelata, tuttavia, non quando arriva – non invitato – ad eventi riservati allo scopo di affrontare i profittatori, ma nelle eccezionali interviste fatte loro. Queste rivelano che ogni mercante d’armi ha una visione del mondo che viene rapidamente spiegata davanti alla telecamera. I guerrafondai non operano ormai più nell’ombra. Se le armi vengono vendute sul mercato aperto, esse dovrebbero essere trattate come una qualsiasi altra merce, e, poiché ciò che è nascosto non può essere venduto, il paravento della segretezza deve essere rimosso rapidamente dal mercato della sicurezza, trasformando l’occupazione da un vergognoso ben noto segreto in un punto vendita.
Accattivanti storie di successo di comandanti di campo israeliani che mobilitano la loro passata esperienza in combattimento per vendere armi rafforza maggiormente l’impressione che l’occupazione fornisca opportunità economiche redditizie. Allo stesso tempo, le storie suggeriscono che l’intimo rapporto tra i militari e l’economia in Israele è più grande della somma totale di tutte le relazioni personali tra professionisti militari e imprenditori o di alcuni comandanti di campo con acume negli affari.
Nelle conferenze internazionali dove modelli israeliani mostrano con orgoglio armi a uomini bramosi, sembra che il Ministero della Difesa israeliano operi come principale agente esportatore. Questo è dove il confine tra l’«economico» e il «politico» crolla e dove la frase «forza economica» si rivela essere molto di più di un gioco retorico di parole: si tratta di un piano di lavoro. Un piano fondato sul presupposto che la sicurezza è un prodotto che il paese fornisce ai suoi cittadini rispettosi della legge, e che un’economia forte è la base per la forza militare. Laddove il ruolo dello stato nell’espansione dell’industria della difesa è intrinsecamente certo, poiché supporta la «crescita» e la difesa delle esportazioni – anche quando completamente private – queste sono viste come una storia di successo nazionale. Presa in prestito dalla terminologia cinematografica, l’industria della difesa israeliana è un evidente caso di co-produzione.

Ciò che conta, questa coproduzione ha un terzo partner: il mondo accademico israeliano. Uno degli aspetti più interessanti del film consiste nell’intrecciare le storie di inventori e di trafficanti di armi con quelle di scienziati e intellettuali.
Il filosofo militare Shimon Naveh ci porta in una base per esercitazioni nel deserto, modellata su di una cittadina palestinese. Con una T-shirt Nike, pantaloni mimetici militari e occhiali arcuati alla moda, se ne va a giro per la località fantasma, spiegando come la filosofia francese lo abbia aiutato a farsi venire in mente una dottrina militare adatta per la guerra post moderna: la decostruzione, ma dello spazio urbano. Posta senza mezzi termini, la dottrina si basa sui fori nei muri delle case residenziali e sul muoversi come un rizoma fuori dalle strade asfaltate. Naveh può cosi prendersi il merito per la distruzione provocata dall’IDF quando ha rioccupato le città della West Bank durante l’Operazione Scudo Difensivo.
Al Palazzo delle Scienze Sociali presso l’Università di Tel Aviv, incontriamo in professor Yitzhak Ben Israel, che è impegnato nello sviluppo di modelli matematici che pronostichino i tassi di successo di arresti e di uccisioni mirate. I suoi modelli gli permettono di predire, utilizzando una semplice formula sostitutiva, il numero di persone che c’è necessità vengano uccise al fine di portare al collasso di un’intera organizzazione o di un sistema politico. La ricerca di Ben Israel è solo un esempio della fiorente industria della conoscenza riguardante la sicurezza nel mondo accademico israeliano, che anche i pochi accademici israeliani che pubblicamente si oppongono all’occupazione, tendono a ignorare.

Ibridi di Feldman – androidi di scienza, tecnologia e militare – mostrano in modo drammatico le ripercussioni di vasta portata della migrazione della conoscenza dal laboratorio israeliano al resto del mondo. Per esempio, tecnologie israeliane per il controllo dei disordini vendute alla polizia brasiliana per la lotta contro gli spacciatori di droga hanno fatto le favelas di Rio alla stregua di campi profughi palestinesi; Kabul richiama alla mente Baghdad, che a sua volta assomiglia a Jenin. Questa rassomiglianza è più del prodotto dell’immaginario orientalista o dell’odio del povero e nero (sebbene questi siano fattori certamente importanti): è una forma di conoscenza, prodotti per l’industria hi-tech, i quali rendono questi spazi così sconvolgentemente simili.
* Eilat Maoz è dottoranda di ricerca presso il dipartimento di antropologia dell’Università di Chicago. Il suo articolo è stato pubblicato in origine dal sito +972.com
(traduzione di Mariano Mingarelli)