Lo stato d’animo del Veneto e la nazione di Mameli. Un plebiscito al contrario 150 anni dopo e una «trattativa politica» che punta a clonare Trento, non Barcellona.

Il referendum incorona Luca Zaia, il più democristiano dei Bossi Boys anni ’90, e virtualmente blinda la rappresentanza alla vigilia della lunga stagione che dalle Politiche 2018 arriverà fino al termine del secondo mandato da governatore. Ma il giorno del trionfo lighista combacia con l’imbarazzo di Salvini&Maroni, le piroette berlusconiane e i rigurgiti sovranisti all’ombra di ogni campanile (Pd e sinistra compresi).

Con 2.273.985 che votano Sì non solo il quorum lievita fino al 57,2% (anche grazie a 11.030 schede bianche o nulle), ma soprattutto il Veneto delle matite copiative ricompatta l’esercito che schiera serenissimi nostalgici, padroncini d’ogni risma, secessionisti incalliti, ultras dei borghi, federalisti fuori tempo massimo.

LE URNE DI DOMENICA matematicamente restituiscono due segnali incontrovertibili, quanto sintomatici per la politica.
Primo: il flusso referendario del «Veneto autonomo» quasi combacia in termini di partecipazione con il No a Renzi del 4 dicembre, al netto dei 506.078 astensionisti (che per altro sono più dei 432.629 di Alessandra Moretti…).

Secondo: la linea Zaia interpreta sempre meglio il Veneto, che alle Regionali 2015 si era fermato a 2.296.862 votanti complessivi (cioè 32.087 in meno di domenica) con il trionfo maggioritario del centrodestra a quota 965.994 voti, di cui ben 427.363 alla lista personale del governatore.

CITTÀ ASSEDIATE dalle piccole patrie. È il vero cortocircuito del Nord Est “europeo” di Atenei, Confindustria, Fondazioni e lobby con il Veneto provinciale, fai-da-te, silenzioso e malmostoso. Soltanto il Polesine, per altro storicamente depresso e marginale, non contribuisce al quorum. Vicenza svetta con il 62,7% dei votanti, davanti a Padova (59,7%) e Treviso (58,1%). Ma anche a Verona, Venezia e Belluno i seggi della provincia più che compensano lo scetticismo delle città capoluogo.

SHOW E DEVOZIONE, oltre la fila ordinata, per guadagnarsi l’attestato con il simbolo del leone di San Marco. A Vicenza, la 27enne ex aspirante show girl Michela Morellato si presenta nei panni di Wonder Woman per incarnare la volontà autonomista. Fa di meglio Marco Gambaretto, emigrante nel Golfo Persico: si sciroppa 6 mila chilometri pur di non mancare l’appuntamento con il seggio di San Giovanni Ilarione (Verona).
La roccaforte dell’affluenza, invece, è un Comune di 1.172 anime: a Nogarole Vicentino il record con il 75,4%. I “disertori” si annidano nel Bellunese (Soverzene 23,3%) e in Polesine (Ficarolo 30,9%).

IL MODELLO DOROTEO sembra inossidabile, se il Big Bang di Zaia è esploso grazie al comitato della senatrice dem Simonetta Rubinato e ai sindacalisti Cgil trevigiana Nicola Atalmi e Paolino Barbiero, alla benedizione del patriarca Francesco Moraglia o del presidente veneto di Confindustria Matteo Zoppas, alla conversione serale del nuovo sindaco di Padova Sergio Giordani e alla sussidiarietà dei media in cambio della pubblicità.

Funziona così, dai tempi del “doge” Carlo Bernini: nel perimetro della concertazione tutti soddisfatti. E in nome dell’orgoglio veneto, non fa niente se il Duemila regala lo scandalo Mose, il fallimento di Popolare Vicenza e Veneto Banca o l’incubo Pfas a 400 mila persone.

L’ITER DELL’AUTONOMIA comunque non sarà rapido né spianato. Zaia aveva messo le mani avanti, per tempo, con 37 pagine di elenco delle 23 competenze «referendarie» già spedito a Roma.

Gianclaudio Bressa, ex sindaco di Belluno e ora di fatto “ministro reggente” degli Affari regionali, continua però a bocciare ogni ipotetica velleità sul tesoro fiscale. La partita si gioca sullo stesso tavolo dell’Emilia, che non ha avuto bisogno del referendum: nessuno sforamento rispetto alla Costituzione. Anche se Trento, per dire, ha impiegato sei anni prima di avere sovranità assoluta sulla sua rete stradale…

La giunta Zaia, sull’onda dei consensi, sventola la bandiera dell’autonomia sul modello del Trentino rinunciando così alla “secessione catalana”. Il Veneto pretende nove decimi del gettito Irpef, Ires e Iva per poter gestire in loco sanità, istruzione, ambiente e perfino rapporti con l’Europa.

In ogni caso la proposta, nero su bianco, che Venezia ufficializzerà ha bisogno della maggioranza assoluta nei due rami del parlamento.

SPOT A TUTTO CAMPO, in buona sostanza. Zaia diventa così l’alter ego di Salvini, dentro e fuori la Lega.

Governa la vecchia Vandea, anche in nome dell’integrazione “funzionale” dei migranti. Ha già piegato i reduci di Forza Italia, Udc e destra nazionale allargando la platea ai sindaci estranei al centrodestra. E agli orfani del “modello” (gestito da Galan, Chisso, Zanonato, Orsoni, Tosi o Variati) offre la lunga marcia verso lo statuto speciale.

Zaia ha imparato in gioventù l’obiezione di coscienza. Non vestirà la divisa della guerra per palazzo Chigi. Resta in trincea – fra le colline del Prosecco e gli stucchi di palazzo Balbi – serenissimo fedele di san Marco. Fino al 2020. Con il Veneto “rivoluzionato”?