La vicenda artistica di uno dei maggiori pittori del Gotico europeo, Pietro Lorenzetti da Siena, è stata affrontata da Michela Becchis in una monografia (Silvana editoriale, pp.168, 106 illustrazioni a colori, euro 38) rigorosa e densa di riferimenti alla storia di alcuni dei fatti nodali dell’arte trecentesca in Italia. Prima fra tutti, la decorazione del transetto sinistro della Chiesa inferiore di San Francesco in Assisi, dove il pittore eseguì lo straordinario ciclo della Passione di Cristo, che dialoga con elegante drammaticità, in un intreccio di significati e di stile, con le Storie dell’Infanzia di Cristo, i Miracoli post mortem di san Francesco e con la volta d’incrocio con le Allegorie francescane, eseguiti da pittori operanti nella bottega di Giotto.

Questo ciclo lorenzettiano, pur oggetto negli anni passati di numerosi e autorevoli interventi critici, attendeva una lettura attenta come quella qui messa in atto; attenta per la convincente contestualizzazione ideologica e devozionale, come pure per la proposta di collocazione temporale, sofisticata per quanto riguarda l’interpretazione dei dati formali. Ed è proprio nella considerazione di questi ultimi in stretto rapporto con lo sfondo storico e dottrinale che caratterizzava la città di Assisi e, soprattutto, l’Ordine francescano, che risiede il pregio maggiore del lavoro di cui ci occupiamo.

A ciclo continuo

Sono, infatti, quelli dell’intervento di Pietro nella chiesa-madre, il Memorialbau dell’Ordine e del suo fondatore, gli anni che vedono un vero e proprio ritorno di fiamma della corrente spirituale, che ebbe in Ubertino da Casale il suo maggiore esponente. Ma sono anche gli anni dell’interdetto papale sulla città, promulgato da Giovanni XXII nel 1323, a seguito del furto del tesoro pontificio, ricoverato presso la sagrestia del Sacro Convento, nel corso del trasferimento della corte pontificia ad Avignone, ad opera del partito ghibellino sotto il comando di Muzio di ser Francesco il quale aveva preso il controllo della città nel 1319-1320.

L’interdetto papale ha da sempre costituito per la critica un punto fermo per negare la possibilità di una esecuzione del ciclo lorenzettiano nel terzo decennio del secolo. Michela Becchis, invece, propone in termini convincenti proprio quegli anni per l’intervento del senese nella chiesa inferiore, rilevando innanzitutto che nemmeno nel periodo dell’interdetto papale l’attività della Basilica assisiate conobbe momenti di stasi, sia dal punto di vista liturgico-devozionale sia da quello della committenza di opere d’arte, proseguendo nel programma di decorazione dell’edificio progettato e cominciato tre quarti di secolo prima e condotto con determinazione dall’Ordine. Il che, sia detto per inciso, fece della Basilica assisiate la straordinaria summa della pittura italiana tra Duecento e Trecento, che ancora colpisce l’osservatore – anche il più smaliziato – per la sua omogeneità di concezione e, nello stesso tempo, per la sua varietà, mai dissonante, di mezzi espressivi.

Ma l’ipotesi della studiosa si spinge oltre, prendendo le mosse da una notizia riportata da Giorgio Vasari e da fra’ Ludovico da Pietralunga, autore tra 1570 e 1580 di una dettagliata Descrizione della basilica di s. Francesco e di altri santuari di Assisi, che avevano visto sotto gli affreschi uno stemma dipinto con l’arme di Gualtieri di Brienne, più noto come il Duca d’Atene. Legato alla casata angioina che regnava su tutta l’Italia meridionale, avendo sposato la nipote di re Roberto d’Angiò nel 1320, viene indicato dall’autrice come possibile committente, tra il 1326 e il 1327, della decorazione del transetto sinistro, trovandosi proprio in quegli anni in Italia centrale, tra Lazio e Umbria.

Ciò trova conforto anche nelle sue posizioni religiose e politiche, vicine agli Spirituali francescani e in opposizione al Papato, nonché ai buoni rapporti che intratteneva con il cardinale Napoleone Orsini, figura influentissima presso la corte avignonese e importantissima per la Basilica assisiate.

Slittamenti temporali

Ma tutto ciò sarebbe pura congettura storica, se Becchis non avesse convincentemente individuato, in una porzione di affresco assai consunto, proprio lo stemma di Gualtieri di Brienne, là dove lo avevano indicato Vasari e Ludovico da Pietralunga. Il confronto proposto tra questo stemma e uno esistente a Firenze in via de’ Calzaiuoli rende la proposta ben più che suggestiva. Verrebbe da dire dirimente.

Questo spostamento cronologico del ciclo della Passione di Cristo rende più semplice anche spiegare l’evidente impatto che esso esercitò sui maestri attivi nella bottega di Giotto che in quello stesso giro di anni dovettero eseguire gli affreschi nel transetto destro, in cui si scorgono indubbi riflessi del rutilante cromatismo lorenzettiano, in contrasto solo apparente con la più severa ed essenziale cromia giottesca.

Ed è proprio ai rapporti formali tra la pittura Pietro e quella di Duccio di Boninsegna e di Giotto, che l’autrice dedica interessanti pagine, notando non solo le vicinanze del più giovane pittore ai grandi maestri, fondatori il primo della scuola senese, il secondo di quella fiorentina, ma anche la sostanziale autonomia che guarda anche al passato più antico, quello dei decenni centrali del Duecento, soprattutto per ciò che riguarda alcune scelte iconografiche e di resa espressiva. E, allo stesso tempo, vengono sottolineati i temi formali che Lorenzetti mutua dai grandi scultori del suo tempo, Giovanni Pisano e, soprattutto, Tino di Camaino.

Nel 1320 il vescovo aretino Guido Tarlati commissionò al pittore una delle sue opere di snodo, il polittico per la pieve di Santa Maria ad Arezzo. Non va dimenticato che il prelato fu uno degli ispiratori, se non l’unico, della rivolta di Assisi di cui sì è detto e che sotto i suoi occhi di esperto e appassionato committente, passò il tesoro papale, traboccante di capolavori. È questo, in estrema sintesi, il profilo di colui che incaricò Pietro di eseguire un’opera che con la sua varietà e vivacità di resa dei personaggi sacri, con l’impostazione spaziale dell’Annunciazione nella cimasa, con eleganza somma della gamma cromatica, segna una tappa di grande momento nel percorso della pittura italiana, non solo senese.

Troppo spesso nella critica del Novecento, ma anche in quella del secolo presente, la pittura senese ha subìto una latente sottovalutazione a favore del «primato» fiorentino incarnato da Giotto. Quasi che le due «scuole» vivessero e lavorassero in universi paralleli. Pietro – ma anche il fratello Ambrogio – guardano sì alle rivoluzionanti novità giottesche con occhi attenti e intelletto prensile, ma anche il fiorentino nei decenni ultimi della sua attività risente delle raffinatezze cromatiche e ornamentali della pittura del Maestro come dimostrano opere capitali uscite della sua bottega, ad esempio il Trittico commissionato dal cardinale Jacopo Stefaneschi per la basilica di San Pietro in Vaticano.

Le croci processionali

Su questo punto specifico, Becchis osserva che prima dell’arrivo di Giotto a Napoli su chiamata di Roberto d’Angiò nel 1328, la pittura senese era rappresentata da importanti artisti, oltre che naturalmente dalla famosa tavola eseguita da Simone Martini nel 1317 e raffigurante San Ludovico d’Angiò che incorona il fratello Roberto.

Oltre che su questi temi strategici per la storia dell’arte italiana del Trecento, la monografia  si sofferma con attenzione su tutte le altre opere lorenzettiane, dalla pala del Carmine agli affreschi di San Francesco a Siena, dalla singolare croce processionale sagomata del museo Diocesano di Cortona, intensa anticipazione di una tipologia che giungerà fino alla Francia meridionale del tardo Trecento, con la croce del cardinale Godin per la chiesa dei Giacobini di Tolosa, fino alla stupefacente, per novità di impianto, Natività della Vergine nel Museo dell’opera del Duomo di Siena.

E, in conclusione, non manca, in questo percorso di ricerca tracciato dall’autrice, un’attenta valutazione delle opere attribuite, volta a riconoscere la specificità altissima della mano del Maestro.