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Il pirata delle rocce

Il pirata delle rocce

Libri La vita bruciata di Gary Hamming, scalatore californiano beatnik e immarcabile, nel libro di Enrico Camanni «Se non dovessi tornare»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 28 dicembre 2023

Lo aveva già raccontato in Alpi Ribelli edito da Laterza, Enrico Camanni: le montagne possono essere perfetto rifugio e megafono di anime libere. Con le sue storie vere di resistenza e utopia sulle cime aveva realizzato una ricognizione di montanari disobbedienti, e il risultato era stato una galleria esemplare di figure anticonformiste raccontate in cordata. Ora con Se non dovessi tornare (per la collana Strade Blu di Mondadori), storia della vita bruciata di Gary Hemming, scalatore californiano beatnik e immarcabile, offre uno spin off di quel primo libro costruito tutto attorno alla figura sfuggente e ammaliante del pirata delle rocce.

COL LIBRO DI CAMANNI, CHE A SUA VOLTA è alpinista oltre che varie altre buone cose, è disponibile un podcast che lo distilla in quattro pillole e una playlist di canzoni; un’abitudine, questa abbinata, che sta prendendo campo presso alcuni editori ma che nel caso della racconto della vita e della morte di Hemming pare imprescindibile, perché la vicenda è concentrata in una di quelle stagioni, 1966-1969, con la colonna sonora incorporata; tracce musicali avvertibili in filigrana che si dispiegano tra Country Joe and the Fish, Leonard Cohen, Fabrzio De Andrè, Beatles, Luigi Tenco, Rolling Stones, Simon and Garfunkel.

QUEL CHE IN ITALIA SAPEVAMO GIÀ di Gary Hemming lo si deve a un articolo del Paris Match del settembre del 1966, tradotto da Andrea Gobetti, e alla biografia dello scalatore americano curata da Mirella Tenderini, edita nel ‘91 da l’Arciere e Vivalda. Il californiano sfrontato che scalava in maglione rosso ha conosciuto più di quarto d’ora di celebrità dall’estate del ‘66 per aver salvato la vita, insieme a una manciata di complici, a due scalatori tedeschi prigionieri del Petit Dru, la parete più ostile del Monte Bianco. Un’impresa che in tempi di eroismi strombazzati e amplificati dai social stupisce per l’ostinato disinteresse del suo protagonista a ogni forma di tornaconto e ribalta. Per la sua fuga, inutile, da ogni tipo di copertina come dal lessico bellico che non passa mai di moda «nessun eroismo, bisogna aiutare sempre, perché la prossima volta potresti essere tu lassù nei guai», «io trovo nelle montagne le stesse cose che Hemingway trovava nelle guerre. Ma a me non piacere vedere uccidere le persone».

NON C’È AFFETTAZIONE NELL’ORRORE di Gary per il superomismo, «tutti possono essere eroi per un giorno», David Bowie lo sapeva bene, «tutti rimaniamo vigliacchi». Il salvataggio temerario compiuto nelle more dei soccorsi ufficiali aveva reso Hemming fotogenico suo malgrado e popolare come uno instagrammer; ma se la sua sfavillante salita alla cima («meglio arrivare in alto per trovare qualcuno da salvare piuttosto che una vetta piena di vento») è stata comunque celebrata e conosciuta, la storia meno nota e molto più ardua di Se non dovessi tornare è quella di una discesa, durante la quale si sa che è più facile scivolare e farsi male.

IL RACCONTO DEL SOCCORSO GUIDATO dall’outsider di fede anarchica è avvincente e esemplare tanto più in tempi di baciapile di ritorno che liquidano i naufraghi come olii esausti da sversare in mare, ma la parte della storia davvero eloquente e necessaria è quella che fa dell’icona un amico fragile, quello per cui quando finiscono le sue dita deve in qualche modo cominciare una parete. Uno che per voglia di vivere totalizzante e travolgente saliva in verticale ma poi capiva che la pace si trova in piano, che è un orizzonte, tale rimane e non si fa raggiungere. L’Hemming raccontato da Camanni era il tipo che vibrava allo stesso modo per i fatti personali e per quelli della collettività, vivendo con la stessa partecipazione le scalate, la guerra in Vietnam, l’allunaggio, i propri amori ossessivi per donne dai nomi simili, l’assassinio di Kennedy, il maggio francese, le interviste.

UN ALPINISTA CHE AVEVA FATTO PRATICA a Yellowstone, portando poi in Europa quanto appreso affrontando il monolite granitico di El Capital, e apparteneva a quella scuola di scalatori coi capelli lunghi e le braghe di tela, in simbiosi con la parete; che conoscevano, grazie al clima senza tempeste di quella parte di America, l’attesa sospesi alle amache aspettando di salire; gente che viveva il climbing come certuni la vita, una sequenza di azioni perfette o perfettibili, e la permanenza sulla roccia come un viaggio psichedelico.

IN PARTICOLARE HEMMING, ricorda Camanni, predicava e soprattutto razzolava dentro una filosofia di arrampicata ecologica tanto lungimirante da suonare ancora oggi profetica, secondo cui non si deve lasciare traccia del proprio passaggio e, quindi, prevede che guadagnata la meta vadano tolti i chiodi con la stessa meticolosità con cui li si è piantati. Un pensiero che ricalca quello dei nativi d’America e sostiene che ci non si debba informare troppo sulla via da percorrere: «eccesso di sapere equivale a privazione di gioia».

TERZO PRINCIPIO FONDAMENTALE quello di usare solo gli appigli naturali offerti dalla roccia e di pensare che moschettoni e corde servono solo a proteggere in caso di caduta, non ad agevolare la salita. Questo stare invisibili ma compenetrati dentro la natura, Hemming lo esprime anche rispetto alla mondanità e ai suoi clamori, con una idiosincrasia verso la frenesia di apparire di chi è convinto che per esserci bisogna essere visti. In Italia a riprendere il discorso su un alpinismo responsabile a metà anni Settanta c’è stato anche il torinese Gian Piero Motti, col movimento Nuovo Mattino, che reclamava rispetto per la natura contro il crescente sfruttamento delle montagne e liberazione dagli orpelli dello zaino, degli scarponi della Naja e del mito della vetta a tutti i costi.

NON È UNO SPOILER DIRE CHE HEMMING (scomparso a trentacinque anni lo stesso giorno della morte di Sharon Tate) non è sopravvissuto all’escursione termica emotiva che separa cima e abisso, né a quella politica, alle contraddizioni del ’68, alle proprie, alla paura dell’alcol, che come i come i Nativi americani tollerava poco, a quel tipo di personale dirompente vitalità che, se alimentata dallo spirito dei tempi, può divorare chi non conosce bene come domarla. Ma sapere che uno come Gary Hemming ha calcato questa terra e volteggiato sulle sue rocce dà la speranza di un precedente, è viatico per guardare alle montagne (e magari al consorzio umano) in modo più grato e premuroso.

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