Gli scrittori di libri dedicati agli alberi vengono spesso invitati dai propri editori a costruire percorsi ampi, capaci di toccare argomenti e luoghi i più estesi possibile. Di tanto in tanto, invece, ci si imbatte in opere che si focalizzano su singoli luoghi o su singoli alberi. Anni fa mi capitò di tradurre un libro americano illustrato per bambini che narrava la storia di una delle più celebri sequoie, il Wawona Tree, a Mariposa Grove, alto sessantanove metri e nel quale, nel 1881, venne scavato un tunnel dove passavano diligenze, uomini a cavallo e quindi autovetture. Quantomeno fino al febbraio del 1969, quando l’albero venne schiantato da una bufera di neve. La conifera aveva circa 2300 anni. Nel corso degli anni, nella mia dendroteca privata, sono arrivati i saggi di Agostino Sacchet – dedica alla pianta superstite di Longarone, Intorno alla sequoia. Dove rinasce la vita – e Attilio Selva – tributo alla maggiore rovere del Nord Italia, Il rogolone, che cresce nei boschi di Grandola ed Uniti, comasco – di Matteo Melchiorre – dedica all’olmo secolare sradicato di Tomo, nel feltrino, Requiem per un albero, recentemente confluito, insieme ad altre scritture, in Storie di alberi e della loro terra – ed Adriana Bonavia Giorgiotti – delizioso il suo Meditare dentro un platano, canto e terapia al dolore dell’esistenza rivolgendosi all’albero presente nel proprio giardino.

Ora si aggiunge L’albero della speranza del giapponese Arai Man (edizioni E/O). La scrittura invero non risulta particolarmente invitante o suggestiva, ma la storia di questo albero merita di essere conosciuta. Quando l’11 marzo 2011 una scossa di terremoto di magnitudo 9.0 colpisce il Giappone orientale, uno tsunami gigantesco si scaglia contro la costa, investe la centrale nucleare di Fukushima e causa ventimila morti. 570mila gli sfollati. Ne venne travolta anche la pineta di Takata-Matsubara, composta da settantamila pini neri (Pinus thunbergii) e rossi (Pinus densiflora) – essenze da noi usate dagli appassionati di bonsai – e disposta lungo due chilometri di costa all’interno del Parco nazionale di Rikuchu. Riconosciuto come panorama nazionale, la pineta era stata coltivata fin da 350 anni addietro. In una desolazione che le televisioni ci hanno restituito così tante volte è rimasto in piedi soltanto un pino di circa 250 anni, alto trenta metri. L’autore lo impersonifica, ne immagina la paura al momento del cataclisma e i pensieri alla mesta constatazione di essere rimasto l’unico superstite, una parola che i giapponesi ben conoscono, memori dei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki. «I miei fratelli si erano trasformati, chi in neve, chi in pioggia. Le mie sorelle, allo stesso modo, erano diventate uccelli e farfalle di ogni genere. Uno dei miei fratelli era rinato come cetriolo di mare.» Il pino però diventa albero della speranza, poiché attraverso i propri semi, potrebbe diventare un giorno la “madre” di una nuova selva fitta e tanto amata dai visitatori umani e animali, come lo era la distesa di Takata. Splendide le fotografie di Kainuma Takeshi.