«I grandi successi sono dovuti alla perseveranza», recita un’affiche vintage che rappresenta Champollion mentre tiene tra le mani dei frammenti di pietra con geroglifici. Nella stampa, che risente di certa anglofobia, campeggia non la Stele di Rosetta ma il bassorilievo della dea Hathor e di Seti I conservato al Louvre. La curiosa illustrazione, appartenente a una serie di litografie a colori realizzate da René Le Texier per la propaganda della Lotteria nazionale nella Francia del 1943, è esposta a Parigi presso la Bibliothèque nationale de France (BnF) nell’ambito della mostra L’aventure Champollion. Dans le secret des hiéroglyphes, che si concluderà il 24 luglio. Promossa in occasione del bicentenario della decifrazione degli antichi segni pittografici e ideografici, la rassegna curata da Vanessa Desclaux, Hélène Virenque e Guillemette Andreu-Lanoë non si limita a ripercorrere la memorabile impresa di Jean-François Champollion ma ne indaga anche l’esemplare personalità. Come ricordato nelle ultime sale dell’itinerario – dai fumetti con protagonisti Blake e Mortimer alla saga di Indiana Jones fino alle costruzioni Lego – la figura del decifratore di enigmi ha conquistato la cultura pop, sfuggendo ai polverosi e talvolta controversi affari dell’Accademia. Al punto che risulta oggi più agevole riconoscere il piglio geniale del francese nella benevola caricatura di Le Texier piuttosto che nell’elegante ma severa posa in cui lo immortalò nel 1831 Léon Cogniet.
La storia di colui che rivelò al mondo i segreti della scrittura monumentale degli Egizi non poteva essere raccontata altrove. Ereditaria delle collezioni reali, la BnF – conosciuta dal 1994 anche come Biblioteca François Mitterrand – conserva infatti ottantotto volumi tra note e disegni autografi di Champollion: un patrimonio di cui, grazie all’esposizione, possiamo carpire l’incommensurabile valore documentario. Al cospetto dei fitti e spesso coloratissimi appunti di Champollion, persino la Stele di Rosetta perde un po’ della sua iconica aura. Della «pietra nera» lo studioso non vide mai l’originale. Scoperta nel 1799, non lontano da Alessandria, dall’ufficiale dell’armata napoleonica Bouchard fu confiscata ai francesi dai vincitori della battaglia di Canopo. Dal 1802, il monumento trilingue in granodiorite si trova al Britsh Museum ma l’Egitto ne reclama il ritorno. La mostra presenta un calco in gesso effettuato immediatamente dopo il rinvenimento e appartenuto all’ellenista Jean-Antoine Letronne, autore di una traduzione del testo greco nonché successore di Champollion al Collège de France.
Nel 1812 è il fratello Jacques-Joseph a trasmettere a Jean-François, il cui interesse per le lingue orientali fu precoce, le prime copie della Stele di Rosetta. Oltre all’insegnamento del greco e del latino, nel 1801 Champollion «il giovane» – all’epoca undicenne – venne infatti iniziato all’ebraico e, due anni più tardi, all’arabo, al siriaco e all’aramaico. Di sua iniziativa si procurò, poi, grammatiche di cinese ed etiopico. Nel 1805, l’incontro con il monaco melchita Raphaël de Monachis lo spinse a familiarizzarsi con il copto, la lingua dell’Egitto cristianizzato (l’ultima iscrizione in geroglifico fu scolpita nella Porta di Adriano, a File, il 24 agosto del 394) di cui intuì le radici arcaiche. «Parlo copto da solo», confessò al fratello maggiore. Ed è proprio attraverso la tenace comparazione tra parole copte ed egizie che lo studioso arriverà a identificare i suoni e il senso dei geroglifici.
L’istituzione (allora Biblioteca imperiale), dove – tra il 1807 e il 1809 – l’enfant prodige scomparso all’età di 42 anni seguì i corsi di archeologia di Aubin-Louis Millin, allestisce vetrine generose di manoscritti, come le pagine del dizionario egizio-copto in cui Champollion determina elementi della natura, uccelli e altri animali: la calligrafia è minuta e per nulla incerta; i disegni, di un sorprendente virtuosismo, sfavillano ancora dei preziosi colori. L’ammirazione dei visitatori si associa a un balzo emotivo quando lo sguardo indugia sull’ingiallito taccuino da cui emerge, in varie scritture, il nome di Cleopatra «vedova di Filometore, prima moglie di Evergete». È questa una pagina epocale dell’Egittologia, la chiave di volta della decifrazione. Nel 1822 Champollion si dedica, non per la prima volta, ai cartigli dei sovrani Greci e Romani, che trascrive febbrilmente dai resoconti di viaggio di esploratori e architetti. Sulla scia di Silvestre de Sacy, Åkerblad e Young, e affrancandosi dalla Stele di Rosetta che conteneva solo qualche nome proprio, prova definitivamente l’utilizzo di caratteri geroglifici per «riprodurre» suoni (in precedenza aveva validato l’ipotesi dell’uso fonografico di alcuni caratteri del demotico per redigere gli appellativi stranieri). I nomi di Tolomeo, Cleopatra, Alessandro, Berenice, Cesare e Traiano risuonano così nella famosa Lettre à M. Dacier, di cui ricorre l’anniversario.
Sebbene sia stato l’exploit linguistico-filologico a tramandare ai posteri la fama di Champollion, il suo contributo alla conoscenza della civiltà faraonica non fu meno significativo. Questo aspetto è evidenziato in mostra (e nell’accurato catalogo edito dalla stessa BnF) dalla miriade di disegni e rilievi effettuati durante i suoi viaggi in Europa tra 1824 e 1826. Al Museo Egizio di Torino, dove era stato appena acquisito il corposo materiale raccolto da Bernardino Drovetti, Champollion poté accedere a una stanza da lui definita il «colombario della Storia»: qui – in mezzo a un cumulo di frammenti di papiro – individuò la lista cronologica dei sovrani egizi dalle origini alla XVIII dinastia. La ricostruzione del documento noto come «Canone reale di Torino» è senza dubbio uno dei simboli della rassegna, sebbene il dizionario dei geroglifici (quasi un album) descriva altrettanto efficacemente il modus operandi di Champollion. Nell’edizione postuma del dizionario (1841-’43), Jacques-Joseph Champollion spiega che le schede in cui venivano compilate le parole del vocabolario accompagnarono il fratello durante il suo viaggio in Egitto del 1828, quando diversi disegnatori erano incaricati dell’aggiornamento in situ.
Del viaggio di Champollion in Egitto alla testa della spedizione franco-toscana non restano i fasti della spedizione napoleonica che tanto ispirò e sedusse il giovane Jean-François ma altrettanto superbi rilievi, come quelli eseguiti con l’egittologo e pittore Nestor L’Hôte nella tomba di Ramses VI. Il passaporto con i numerosi sigilli e gli occhiali da sole appartenuti allo studioso, provenienti entrambi da collezioni private, aggiungono un tocco di umanità a un personaggio che sembra aleggiare nel mito. Se l’esposizione tiene a sottolineare l’impronta lasciata da Champollion a Parigi – nel 1832, egli riuscì a fondare un dipartimento di antichità egizie al Louvre divenendone conservatore, nel 1830 ottenne la cattedra di archeologia al Collège de France e un anno dopo fu eletto membro dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres –, nondimeno ne evidenzia l’universalità del lascito, la cui eco imperitura si fissa nelle lacerazioni materiche di Cal.ligràfic (1995), opera di Antoni Tapiès. L’oscura incisione su legno del pittore catalano chiude il percorso assieme ai primi abbozzi del romanzo di Gérard Macé (Gallimard 1989), che fece di Champollion – appassionatosi in punto di morte all’Ultimo dei Moicani di Fenimore Cooper – «le dernier des Égyptiens».