In un paesino ai piedi degli Urali, circondato di miniere per l’estrazione del carbone, un gruppo di anziani è riunito in un curioso cineforum per vedere Il piccolo principe, home movie di cui parlano tutti realizzato da un tale Oleg Pavlov, con protagonisti i suoi stessi figli. Una signora è entusiasta: «Lei è uno dei più grandi artisti russi», esclama. Un’altra è più critica: «La storia è confusionaria, succedono troppe cose».
«Il piccolo principe muore perché l’autore possa continuare a vivere, lasciandosi l’infanzia alle spalle», spiega Oleg Pavlov con le lacrime agli occhi, come quando, solo a casa, guarda le foto dei suoi bambini e si chiede come mai non lo amino quanto lui ama loro. La sua famiglia è la protagonista di Malenskiy Prints della regista russa Olga Privolnova, in concorso internazionale a DocLisboa 2015.
Una famiglia di artisti, dice Pavlov orgoglioso, che ha fatto recitare i suoi piccoli e porta la figlia a fare gli spettacoli di burattini con lui, vero «tuttofare» della creatività. In casa, però, la situazione non è rosea come vorrebbe: la moglie ha nei suoi confronti una sorda freddezza; la figlia più grande neanche lo sveglia prima di lasciare casa per andare a vivere col fidanzato; tutti si distraggono e vanno via durante la proiezione del suo film.

Come ha scoperto l’esistenza di questa famiglia e perché ha pensato di farne un documentario? 

Un’importante rivista ha pubblicato un articolo sui Pavlov: una giornalista ha trascorso un’intera giornata con loro e ha ascoltato tutte le storie di Oleg sulla sua famiglia super-artistica che stava realizzando un film tratto da Il piccolo principe di Exupery. Così ho pensato che fosse una buona occasione per andare là a vedere cosa succedeva. Ci interessava quello che avremmo scoperto dopo qualche settimana di convivenza, quando le persone si stufano di mostrarsi nel migliore dei modi possibili e ha inizio la vita vera.

Come ha lavorato con i Pavlov? 

L’approccio principale è di non «dirigere», ma di vivere le vite dei personaggi, quelle vite a cui i tuoi protagonisti ti hanno dato accesso. L’idea è di mimetizzarsi il più possibile con il mobilio, di non forzare la situazione in nessun modo. Bisogna ascoltare se stessi: che cosa non ti torna della storia, quale dei personaggi vuoi osservare più da vicino. Quando si arriva in un nuovo ambiente e si conoscono nuove persone si tende ad identificare i «tipi familiari», a cercare di capire tutto di tutti per esercitare una forma di controllo sulla situazione. Ma classificare gli esseri umani in base ad un’impressione superficiale è l’attitudine più pericolosa e meno interessante. Durante il periodo di riprese ho attraversato una tempesta di emozioni. La mia idea sui genitori cambiava di giorno in giorno, così come i miei pensieri su quello che volevo fosse l’argomento del film. Madre e padre svelavano costantemente nuovi aspetti delle loro vite, tutto si ribaltava costantemente. Il primo giorno la madre mi ha confessato che i bambini non avrebbero voluto prendere parte al film di Pavlov, e che loro due erano quasi divorziati, lasciando intendere che il mito della famiglia creativa e amichevole era infranto sin dal principio. Così ho avuto l’opportunità di filmare qualcosa di più importante dello «spirito artistico nel bel mezzo del nulla».

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Presentando il suo film ha chiesto agli spettatori di mantenere una certa distanza. Come mai? 

Volevo solo che il primo strato visibile – gli invalidi, i villaggi abbandonati, il freddo, la miseria – non oscurasse la possibilità di andare più a fondo. Ero preoccupata che la qualità «esotica» della Russia remota avrebbe confuso l’audience portoghese. Volevo discutere con il pubblico gli aspetti più importanti della storia, perché le circostanze esteriori non sono che un dato di fatto, e gli stessi personaggi non si vedevano come «eccezionali». Ad esempio la madre diceva sempre «tutti vivono così, noi non siamo peggio. Ok, non abbiamo l’acqua, ma andiamo d’accordo coi nostri vicini per cui laviamo i panni da loro». Ma nonostante tutte le differenze il senso di solitudine e smarrimento sono universali.

Perché pensa che ci sia questo profondo distacco tra il padre e il resto della famiglia? 

Per me tutti loro sono in un certo senso «tagliati fuori». Il padre dal mondo reale e dalle sue responsabilità verso i figli: è come un bambino che sta bene quando i suoi sogni si realizzano e viene lodato e amato. Non capisce proprio perché gli vogliano bene tutti ad eccezione dei suoi cari. Come dice sua moglie, loro non hanno bisogno di un regista di successo ma di un padre amorevole.
Ma lei stessa, dopo aver perso la gamba da bambina perché sua madre l’aveva portata sulla tomba del padre e c’era troppo freddo, ha lasciato nel passato una parte importante di sé. I figli sembrano affettuosi tra di loro e soprattutto con la mamma, ma in fondo sono soli. Uno di loro nel film chiede: «Perché abbiamo bisogno delle persone? Non gliel’ho chiesto io di entrare nella mia vita».