Distillato naturale del corpo, la lacrima è continuamente soggetta a un’imponente plasmazione culturale che l’ha messa al centro di un oceano di gesti, suoni e sentimenti che ne modificano senso e significato a seconda del contesto, e del genere. Se fino ai due anni di età le lacrime risultano ben distribuite in seguito, verso gli undici (Kate Fox, The Kleenex For Men Crying Game Report. A study of men and crying, 2004), a chi è di sesso maschile viene insegnato a trattenerle, secondo un’antica tabuizzazione. Da un punto di vista evolutivo, il pianto sembra essere un «programma» elaborato per attivare le cure parentali o, da adulti, cure in generale. Inibire questo stimolo può portare ad avere meno probabilità di ottenere aiuto quando si soffre. Ogni lacrima è l’umido precipitato di emozioni la cui principale è forse il cordoglio, il dolore del lutto, che già nasconde nella sua etimologia il lugere, il piangere.

SE IL LUTTO è l’insieme delle pratiche sociali e dei processi psichici suscitati dalla morte di una persona, come spiega Alfonso di Nola ne La morte trionfata (1995), tutti i gesti e le lacrime condivise che il Covid-19 ci ha negato con le sue regole sanitarie, sembrano aver reso più pesante il trapasso, più difficile elaborarlo, senza corpi da piangere e rituali da celebrare insieme: la morte intubata è diventata gelida e distante e i riti di cordoglio sembrano essersi rintanati in oscuri e diuturni onirismi.
Sentimenti non risolti, apparentemente congelati come le lacrime nella storia dell’arte. In Jan van Eyck o nel nutrito capitolo del cordoglio divino, vediamo opporsi un’angoscia muta e illacrimata ai mesti volti rigati di pianto che guardano lontano, in basso o dentro la propria interiorità, per ascoltare meglio quel salvifico dolore che qualcuno definisce masochismo benigno (Heather Christle, The Crying Book, 2019, di recente tradotto da Giulia Poerio per Il Saggiatore con il titolo Il libro delle lacrime). Perché nell’arte, nella vita, i nostri sentimenti abitano il mondo conferendogli un senso che ogni morte sembra annullare, e la lacrima può diventare L’urlo di Edward Munch o una metafora di quel «lago di lacrime» in cui naviga Alice nel Paese delle meraviglie: una liquida strada che porta altrove.

È DA POCO TRASCORSO novembre, il mese dei morti, ma non sempre gli antenati si devono piangere: per un monaco buddista, come per un cristiano, sarebbe estremamente inappropriato. Così in diverse culture si frena il cordoglio perché impedisce al cadavere intriso di lacrime il compimento del viaggio finale, talvolta rappresentato dall’attraversamento di un ponte sottile come lama o capello. Per facilitare questo passaggio de Il ponte di San Giacomo (Luigi M. Lombardi Satriani, 1989), si tenta di limitare il pianto utilizzando strategie culturali come il cibo, il sesso, talvolta l’oscenità e il riso, umanissimi fenomeni solutori della tensione nervosa, strategie culturali, non semplici #andràtuttobene.

LA MORTE, IN EFFETTI, è un evento irragionevole, uno scandalo logico irrisolvibile, oggi impoverito dei suoi emblemi, della medievale falce o dei Cavalieri dell’Apocalisse, che ha perso anche il suo valore di scambio diventando solo fisicità, cadavere, funeral house. Jean Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, 1976) la definì una delinquenza, una devianza incurabile.
Gli umani, invece, hanno bisogno di legarsi e ri-conoscersi, di entrare in relazione con l’altro attraverso uno sguardo velato. Sono passati quasi cento anni dall’opera La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer, ma la scena delle lacrime impotenti e senza tempo della protagonista inquisita fanno ancora rabbrividire. Anna Karina nel film Questa è la mia vita (1962) di Godard sente e comprende quelle lacrime di Giovanna e non può far altro – non si può fare altro – che piangere nell’oscurità della sala cinematografica.

Talvolta nel web o in tv assistiamo all’utilizzo pubblico delle lacrime. Troviamo allora conferma di quanto scriveva Marcel Mauss su «Le tecniche del corpo» (in Teoria generale della magia e altri saggi, 1965) osservando le espressioni obbligate dei sentimenti che alcuni politici giapponesi mostrano tra copiose lacrime e lamenti davanti a frotte di giornalisti e telecamere per scusarsi di qualcosa, in un modo familiare a chi vedeva i cartoni giapponesi degli anni 80. Costumi locali – si penserà – eppure Sara Rey (Le lacrime di Roma, 2020) racconta di una simile Miseratio romana, tecnica di umiliazione volontaria di magistrati e accusati in cerca di riabilitazione.

LIQUIDO MICROCOSMO speculare alle acque cosmogoniche, anche la lacrima può generare mondi o esseri viventi. Nel papiro Bremmer, copia del IV secolo di un testo più antico, l’occhio è il simbolo della Grande Madre che genera l’umanità attraverso lacrime. Raffinata antropogonia che in una storia divina racconta qualcosa che è terribilmente umano: solo vicini si scorgono gli occhi bagnati di lacrime. Quelli di un lontano dio celeste – che tutto vede e tutto sa – non potranno essere velati: egli può solo asciugare le lacrime dagli occhi dei suoi figli (Apocalisse, 7, 17).
La vicinanza che reclama il bambino dalla propria madre quando ha fame, freddo o paura è il luogo preferito delle lacrime. Riconoscere questa dipendenza nel mondo religioso è il segno principale di beatitudine. Per questo gli dei sono padri e madri. La vicinanza nelle lacrime rende gli umani in grado di vincere la più temibile delle loro battaglie, quella contro la morte (Alfonso Maria di Nola, La nera signora, 1995).

QUANDO LOKI UCCISE il giovane dio Balder il consesso divino lo pianse a lungo. Decisero così di inviare Hermodhr il Veloce nell’oltretomba affinché Balder potesse risorgere. Hel, la regina del mondo sotterraneo, acconsentì ma solo a patto che tutti gli uomini, le piante e gli animali avessero pianto insieme, cosa che non avvenne a causa di Pokk, una sorta di strega che, istigata da Loki, rifiutò di farlo.
Anche se il cristianesimo non amò il piangere, o almeno il battersi il petto, graffiarsi le guance e i lamenti che facevano da paesaggio sonoro alla Morte e pianto rituale (2021) descritta da Ernesto De Martino, ebbe indulgenza verso l’invenzione del dolore cristiano, discreto e silenzioso come le lacrime versate da una madre inginocchiata ai piedi del figlio crocefisso.
Liquido santo che può ridare la vista ai ciechi e, quando tocca terra, dare vita alla vita: le api nacquero dalle lacrime che Gesù versò dalla croce. Nessuna cadde per terra ma presero il volo, affinché in forma di api portassero ancora la sua dolcezza agli uomini (Revue des Traditions Populaires, 1902).

SORTA DI CONTRAPPASSO, gli inquisitori delle streghe credevano che l’assenza della «grazia delle lacrime» fosse un segno certo di patto col demonio (Malleus Maleficarum, p. III, cap. II, q. IV). Una grazia invece presente nella favola «La regina della neve» di Andersen (Fiabe e storie, 2019), dove un giovane viene colpito al cuore e all’occhio da schegge di uno specchio che lo costrinsero a vedere il male là dove c’è il bene e finendo col vivere nel freddo isolamento del palazzo di ghiaccio della Regina della neve. Guarirà solo attraverso il pianto di una ragazza che gli bagnerà il cuore e porterà via le schegge.

Anche nella vita reale noi abbiamo bisogno di scioglierci e sciogliere gli specchi e i macigni che abbiamo dentro. Allora ben vengano i dodici tipi di lacrime elencate da Roberto Bellarmino nel suo De gemitu Columbae, sive de bono lacrymarum (1617), ben venga l’infinita Eloquenza delle lacrime (Jean-Loup Charvet, 2001) che ci aiuti a comunicare l’inespresso che è bloccato dentro di noi come una belva feroce e impaurita, ben venga questa flebile voce bagnata a ricordarci che «nulla altro che pianto al mondo dura!» (Petrarca, Rime, 323).