Nel grande cielo della musica balcanica quando compare una stella che brilla davvero di luce vivida e propria, ci si ferma a contemplarla, anzi a sentirla, infinite volte. Soprattutto se ad ogni ascolto, quella stella brilla sempre di più. L’astro in questione si chiama Kabatronics (World Village/Harmonia Mundi), album nato dalla simbiosi sonora tra gli albanesi Fanfara Tirana e i londinesi, ma multietnici, TGU, Transglobal Underground. Dubbio non osta a definire l’insieme delle quattordici tracce strepitoso, e con altrettanta certezza a definirne curiosa la storia. Fanfara Tirana nasce una decina di anni fa, quando alcuni musicisti della banda delle Forze Armate decidono di dar vita a un gruppo per animare feste e matrimoni. Ricorda Roland Shaquia, sax baritono: «Abbiamo cominciato per scherzo. Durante le prove di un pezzo di Bach, uno di noi ha iniziato a suonarlo con timbriche folk e noi lo abbiamo seguito. Quando nella nostra vita, non solo artistica, entrò Olsi Sulejmani come produttore e agente, fu lui a suggerirci di eseguire brani albanesi tradizionali, assai differenti da quelli slavi nella strumentazione ma non tanto nei suoni. Se in Serbia e Macedonia, ad esempio, dominano gli ottoni, in Albania spiccano il clarino e il violino. Fare i nostri pezzi con gli ottoni, nei primi tempi ci ha creato perfino dei problemi. Alla gente sembravano slavi. Le ferite delle guerre nei Balcani non sono ancora rimarginate».

La Fanfara guadagna terreno partecipando ai più importanti festival internazionali e suscitando l’attenzione dei media. Poi arrivano Hysni Niko Zela, la voce, e il disco, Albanian Wedding: Brass explosion, che apre le strade ad altre tournées europee. Intanto, a Londra, dagli inizi degli anni ’90, il collettivo dei TGU continua a radunare intorno a sé musicisti originari di quei Paesi che un tempo costituivano l’Impero britannico. Il dialogo transculturale a suon di note porta i TGU a divenire indiscussi maestri del remix. A Tirana, siamo nel 2010, la Fanfara è in cerca di qualcosa di nuovo. Niko: «Volevamo qualcosa di abbastanza balcanico, molto albanese, poco folk e possibilmente indie». Olsi chiede loro un disco senza la parte ritmica. Nascono diciotto tracce, registrate con una base di tastiera per dare soltanto un’idea. Olsi li consegna ai TGU. Il risultato lo racconta ancora Niko: «Il primo pezzo del disco fu anche il primo che ci tornò indietro con una ritmica nuova ed esaltante. Senza stravolgerlo, i Transglobal Underground erano riusciti a rafforzarne il carattere. È rimasto così e non lo abbiamo mai più cambiato. Una volta ricevuti gli altri pezzi, siamo rientrati in studio perché nella loro veste nuova ci avevano dato ulteriori impulsi. Per quasi due anni, tutto è arrivato via internet da Londra a Tirana e viceversa. Lo chiamavamo Yoyo Album. All’inizio, doveva contenere soltanto un featuring dei londinesi. Poi è diventato, come recita il titolo, un incontro fra due mondi».

Da dove nasce e qual è la chiave espressiva del vostro nuovo disco? Spiega Niko: «La musica urbana arriva nei Balcani principalmente all’epoca dell’impero turco, con le bande dei gianizzeri, in gran parte cristiani albanesi o serbi, che influenzarono l’intera musica europea. I piatti usati oggi da tutti i batteristi del mondo, i Zildjian, prendono nome dalla famiglia turca che confezionò la lega di metalli per i piatti delle bande gianizzere. Quindi c’è un filo conduttore nei suoni e nelle melodie ad accomunarci fortemente. La chiave del nostro album sta nel concept. Abbiamo preso spunto dalla musica del sud dell’Albania, dove esiste uno stile particolarissimo di improvvisazione al clarinetto con timbriche, una specie di Albanian blues. Sono dei lamenti in clarino chiamati kabà, che evolvono nella seconda parte in un allegro vivace ad esprimere speranza nel futuro. Secondo la leggenda, una moglie sul letto di morte, vedendo il marito piangere gli disse ‘Se proprio devi piangere, fallo con il tuo strumento! Nacque così il primo kabà. Siamo partiti da quei suoni molto peculiari e li abbiamo portati ai giorni nostri. Insieme ai TGU non poteva che diventare ’Kabà-tronics’, il nome dell’album. Molta tradizione e molta contemporaneità».

«Qaj Marò, Piangi Maria, è una delle tracce che preferiamo, perché è il primo pezzo e lo sentiamo quasi interamente nostro. È il più albanese di tutti, e tratta una piaga sociale che grava tuttora sul nostro popolo, l’emigrazione. Poi Flowers Lament, in albanese Qan lulja per lulen, Fiore piange fiore, che ha versi molto belli e si avvicina molto all’indie come genere». Niko ha un sorriso prima di indicare l’ultima scelta «Wipping Willow Tree è esempio perfetto della simbiosi tra noi e i TGU. Gli altri della Fanfara si sono molto divertiti nel sentirmi e vedermi alle prese con il rap».