Fabrizio Ottaviucci l’aveva detto: suonerò Sonatas and Interludes di John Cage in modo molto diverso da tutti gli altri interpreti, compreso il grande John Tilbury, li trovo troppo rigidi. Detto e fatto. Nel teatrino-bomboniera del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, esposto ai suoni del traffico proprio come sarebbe piaciuto a Cage (ma forse a un Cage di altro periodo e altre opere, più nettamente rumoriste), il pianista umbro sceglie l’aperta cantabilità.

Una cosa che in questo lavoro – un ciclo di 16 Sonate e 4 Interludi composto tra il 1946 e il 1948 – sicuramente c’è ma che è quasi sempre stata occultata dietro il tono meccanico suggerito dalla ricca «preparazione» dello strumento: 45 note su 88 vengono modificate timbricamente con l’inserimento tra le corde di viti, pezzi di gomma e di plastica, dadi di ferro.

Cantabile e un pochino romantico. Anzi, romantico proprio. Questo Cage del primo concerto nel calendario del festival Romaeuropa si può ben considerare «scandaloso» vista la fama di musicista nemico dell’espressività che lui stesso si è costruito. Ma Ottaviucci fa centro. «Voglio ridare a Cage la libertà», ha dichiarato. Invece di puntare sulla «preparazione» con i suoi effetti di pianola artificiale o di gamelan indonesiano in salsa metropolitana, punta sulla melodia. Invece di pensare allo strumento come un altro strumento, pensa alle risorse inesauribili del pianoforte gran coda. Fa il pianista classico a tutto tondo, e lo fa con virtuosismo e sensibilità da Olimpo della musica. Dando a Cage, se non la sua libertà (lui la intendeva da anarchico sperimentatore), sicuramente la libertà di viverlo con inedita voluttà e con abbandono languido.

I riferimenti weberniani sono di là da venire in questo Cage. Bisognerà attendere gli anni ’50 della New York School (Cage, Feldman, Wolff, Brown). Qualche interprete, ad esempio Joshua Pierce registrato nel 1975, li ha scovati tra i suoni di Sonatas and Interludes. Ottaviucci no, se ne guarda bene. Casomai fa trapelare Satie, amatissimo da Cage. Oltre allo Scarlatti delle Sonate in un solo movimento a cui queste Sonate cageane sono accostabili, e infatti verranno accostate il prossimo 5 ottobre dal pianista David Greilsammer alla Biennale Musica veneziana.

Cage piacevole, godibile, leggiadro a Palazzo Altemps. Già nella Sonata 1. E nella Sonata 2 la leggerezza è fascinosa e pure quel tanto di «ninnoleria» a cui Ottaviucci non si sottrae per niente. I trilli della Sonata 2, e se ne incontreranno altri nel corso dell’opera, sono suonati per risultare lussuosi e solleticanti e anche decorativi. Come nella grande tradizione classica e romantica. Nella Sonata 3 ci sono note blues e Ottaviucci le fa ascoltare ben bene. Le dolcezze misteriose della Sonata 4 risultano «made in Ottaviucci» nel suo incontro amoroso con Cage, e poi il concertista è mirabile nel gettarsi in un’analisi sentimentale dell’edonismo inquieto di Cage nell’Intermezzo 1. In cui sta gran parte della personalità ultra-moderna di Cage e Ottaviucci lo sa, e sa che non verrà sommerso, bensì esaltato, dalla distesa cantabilità del quadro sonoro generale.

Ma in questo Intermezzo Ottaviucci accentua anche l’approccio swing, naturalmente con quel tanto di «asmatico» nelle frasi che è tipico della modernità musicale «dotta» (non sempre di quella jazzistica prima del bop e di Monk). Salta fuori un Cage spudoratamente ballabile e cantabile, e se lui è spudorato Ottaviucci lo è altrettanto se non di più. Ma prima di Ottaviucci nessuno ci si era messo in questo modo. C’è da suonare Cage, l’anti-espressivo, il provocatore, il dadaista, e per giunta con un pianoforte oltraggiato da bulloni e chiodi? Nessun problema per Ottaviucci a sfoderare il famoso «tocco» del concertista classico, nessun problema a indugiare nei passaggi lenti su certi «rallentando» tipo Notturno chopiniano.

Luca Del Fra nelle sue note di sala scrive che il pianoforte preparato di Cage in questo lavoro diventa «uno strumento di percussioni liriche». Bello. Ma per Ottaviucci gli aspetti percussivi vengono dopo quelli lirici. Anche in questo consiste la sua specialissima interpretazione, preoccupata di non cadere mai nella rigidità e, dal suo punto di vista, attenta a restituire al pianoforte un po’ dei suoi valori «discorsivi» canonici.

E se si sospetta che ne risulti un Cage del tutto risucchiato dalla logica dell’«ordine del discorso» si sbaglia, perché con questo «ordine» il Cage di Ottaviucci gioca, si intrattiene un po’, lo abbraccia un po’ e in definitiva lo mette da parte.

In questa sottile ambiguità Ottaviucci è calato magnificamente, pur accettando la scommessa pericolosa di mettere in scena un Cage romantico. Romantico e moderno oltre il moderno. Mai sentito così. Vicino a noi ancora di più.