Lo ha meritoriamente citato in parlamento Bruno Tabacci, anche se pochi colleghi parlamentari sanno cosa sia. Il nome di Enrico Bondi, manager che ha salvato Parmalat e non solo, è legato all’ultimo piano lungimirante per salvare l’Ilva.
Correva l’anno 2013, Bondi era commissario straordinario dopo l’arresto dei Riva e assieme al sub commissario Edo Ronchi mise in piedi un piano in grado di mettere veramente assieme lavoro e ambiente: è la trasformazione del ciclo dell’acciaieria dal carbon fossile al gas naturale. Passare al gas naturale adoperando la tecnologia del preridotto: un semilavorato – anche rottame – contenente prevalentemente ferro metallico.
Il nuovo processo produttivo avrebbe consentito un calo della anidride carbonica (CO2) pari al 63%, se il passaggio a preridotto fosse realizzato completamente. Infatti, nell’ipotesi più radicale di produzione del solo preridotto, senza più altiforni in funzione, non esisterebbero più le cokerie, si azzererebbero gli idrocarburi policiclici aromatici (i famigerati Ipa, come il benzoapirene). Si annullerebbe la diossina, dato che non esisterebbe l’agglomerato. L’emissione di anidride solforosa scenderebbe dell’88 per cento. E calerebbero dell’81% gli nox, ossia gli ossidi di azoto.
Un piano condiviso banche e Cassa depositi e prestiti. Una operazione complessiva da 3 miliardi di euro: 2,3 miliardi dalle banche, di cui 700 milioni per il circolante e 1,6 miliardi per gli investimenti, più 700 milioni da aumento di capitale.
Ad aiutare Bondi c’era Edo Ronchi, sub commissario dell’Ilva da metà 2013 a metà 2014, già ministro dell’Ambiente ed esponente di primo piano dei Verdi. La sperimentazione prevedeva di acquistare il preridotto anzichè miscelare i minerali in agglomerato per la carica dell’altoforno. L’idea era di offrire al privato che sarebbe subentrato, oltre ad un’Ilva risanata, anche la possibilità di scegliere come continuare. Ovvero se acquistare ancora il preridotto dall’estero, oppure produrlo nello stabilimento e introdurre il gas nel ciclo. Il tutto mantenendo il target di 8 milioni annui di tonnellate di produzione l’anno.
Ma il governo Letta cadde. Il piano fu bocciato dall’allora governo Renzi. Che sostituì Bondi con Piero Gnudi con lo scopo di vendere l’Ilva – non risanata – al miglior offerente. Così arrivò Mittal.