Si parla tanto di «riforma Fornero immodificabile». In realtà solo un mese fa un codicillo passato quasi sotto silenzio ha cambiato un aspetto assai importante della riforma delle pensioni, specie per le grandi aziende. Altro che Ape aziendale.

Modificando l’articolo 4 della legge del 2011 si è quasi raddoppiato – da 4 a 7 anni – il periodo di applicazione della cosiddetta «isopensione»: i lavoratori possono guadagnare l’uscita anticipata a condizione che l’azienda paghi l’assegno pari all’equivalente della pensione per tutto il periodo di esodo. Una norma molto onerosa che solo le multinazinali possono permettersi: finora l’avevano utilizzata solo Enel e la stessa Telecom ma con numeri molto bassi.

Ora invece, a un mese dall’entrata in vigore, stranamente è la Telecom a proporne l’utilizzo per un numero altissimo di lavoratori: ben 4mila. E viene il sospetto – se non la certezza – che la norma sia stata richiesta proprio dall’azienda al governo per dar vita a un piano di ristrutturazione in cui i 4mila lavoratori sono il numero più alto.

Accanto a loro ci sono 2.500 esodi incentivati (soldi per dimettersi), 3.500 riqualificazioni per riportare all’interno del perimetro aziendale servizi ora esternalizzati (e naturalmente chi li fa da fuori ora è a rischio).

In più per aprire a 2mila assunzioni si utilizza la scorciatoia più breve: il Jobs act parla di «solidarietà espansiva», in pratica ogni dipendente lavora 20 minuti in meno al giorno e così si crea lo spazio per 2mila posti «full time equivalent».

In pratica vanno a casa 12mila lavoratori su un totale di circa 45mila: più di un quarto. E le strombazzate 2mila assunzioni sono meno di un terzo dei pensionamenti (6.500) e dunque il turn over è del 30 per cento.

Per il resto il «piano di riorganizzazione» – già anticipato nelle settimane scorse dai rumors di Borsa – è stato oggi ufficializzato ai sindacati con la solita spada di Damocle: o si arriva a un accordo in vista del nuovo piano industriale che sarà presentato il 6 marzo, ha spiegato il capo del personale Agostino Nuzzoli, o Telecom potrebbe procedere con «soluzione autonome». Leggasi: cassa integrazione e licenziamenti.

Sul piatto la nuova proprietà francese di Vivendi – guidata in Italia dal loro uomo, il nuovo ad israeliano Amos Genish – mette 700 milioni. Una cifra che i sindacati Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom in una nota unitaria bollano come «insufficienti a garantire un’adeguata tutela del personale coinvolto».

«Stiamo parlando di circa il 20 per cento dei dipendenti italiani, una percentuale enorme che qualche anno fa avrebbe messo i brividi», spiega Fabrizio Solari, lunga esperienza dirigenziale in Cgil, chiamato ora a segretario generale della Slc. «Ormai la percepiamo come normalità perché non abbiamo più anticorpi per considerare con la giusta proporzione le proposte delle grandi aziende. Telecom motiva il piano con l’età media molto alta dei lavoratori ma la vera ragione di un dato certamente reale sono le mancate assunzioni, il mancato turn over e gli effetti della legge Fornero».

Paragonando il piano Vivendi all’ultimo proposto da Cattaneo (che dopo la buona uscita milionaria si è accasato a Ntv dal vecchio amico Montezemolo), Solari vede comunque qualche elemento positivo. «Se l’unico aspetto positivo del piano Cattaneo era il non lasciare campo libero a Open Fiber e a Enel sulla battaglia sulla fibra, i francesi ci hanno spiegato che vogliono mantenere la rete e lavorare sulla convergenza fra infrastrutture e contenuti come si sta facendo in tutto il mondo. Il problema – conclude Solari – è che viene il sospetto che per farlo si voglia partire da un piano di pura riduzione finanziaria tagliando semplicemente il costo del lavoro».