Shunga in giapponese significa letteralmente «immagini di primavera». Tuttavia, diversamente dall’immaginario di alberi in piena fioritura che il termine può evocare, con esso ci si riferisce a tutta quella produzione a soggetto erotico di silografie policrome da matrice in legno, libri illustrati, rotoli orizzontali e da appendere realizzati dai più grandi artisti del Mondo Fluttuante a partire dal 1600 e fino alla fine dell’Ottocento. Opere di estrema bellezza e raffinatezza che raccontano la complessità e i delicati equilibri di una società d’impronta neoconfuciana; governata politicamente dalle rigide regole samuraiche (che nel 1722 tra l’altro bandirono la produzione di shunga), ma anche capace di ricavarsi spazi di libertà ed espressione personale grazie soprattutto alla vivacità della nuova classe borghese, che seppe sfruttare i 250 anni di pace garantita dagli shogun Tokugawa per affermare il proprio gusto per il piacere e l’effimero.

Firmate da maestri dell’ukiyoe quali Moronobu (morto nel 1694) Hokusai (1760-1849), Utamaro (morto nel 1806), Eisen (morto nel 1905), accanto a rappresentazioni dei luoghi di piacere dell’epoca Edo, come il rinomato quartiere di Yoshiwara appena fuori città, le case da tè e le loro grandi cortigiane, incarnazioni della seduzione e dell’erotismo per eccellenza, sono le relazioni d’amore, coniugali e clandestine, la passione e la fugacità degli incontri a caratterizzare le immagini di primavera. Costante sono l’esagerazione degli attributi sessuali e le pose improbabili degli amanti, ma mai viene tralasciata la minuziosità dei particolari che dimostra la maestria di pittori e intagliatori: linee sottilissime per i capelli come per i peli pubici, gli occhi maliziosi o estasiati, le bocche socchiuse come petali, e poi motivi e colori di tessuti di kimono e vesti che lasciati cadere morbidi sui corpi bianchi sempre semicoperti rendono anche l’atto sessuale più esplicito un momento di bellezza estrema. Alcune di queste immagini erano definite «pericolose» (abunae) perché lasciavano solo intendere senza mostrare esplicitamente, altre invece più esplicite avevano l’ultimo fine del piacere sessuale, maschile e femminile, e proprio per questo fino ad oggi sono rimaste nascoste ai più, relegate negli archivi di musei e collezioni private o, quand’anche esposte pubblicamente, negli angoli poco visibili o in vetrine semicoperte che ne sottolineavano il carattere voyeristico.

Oggi, finalmente, per la prima volta un team internazionale di 15 studiosi ha forse tolto il velo a questo tabù, completando un progetto di ricerca durato tre anni con l’esposizione di 170 opere sotto il titolo Shunga: sex and pleasure in Japanese art presso le sale del British Museum a Londra (fino al 5 gennaio). Una sede certamente non secondaria per un battesimo come questo, eppure sono in molti a pensare che sarebbe stato più bello se questa prima grande mostra d’arte erotica fosse stata accolta in un museo giapponese. Avrebbe avuto senz’altro un significato di cambiamento culturale rispetto a un atteggiamento generalizzato tra le istituzioni e gli studiosi nipponici di presa di distanza da questa produzione autoctona, considerata in qualche modo compromettente o almeno non degna del riconoscimento artistico internazionale riservato agli altri soggetti dello stesso filone dell’ukiyoe.

Monet, Picasso, Lautrec collezionarono a decine di queste immagini, di paesaggio, di ritratto e di shunga, trovando nella semplicità di forme e ricchezza di colori ispirazione per rinnovare la propria arte. Anche allora l’ukiyoe era in patria poco più di una produzione popolare e venne riconosciuto quale arte solo in seguito al successo riscosso in Europa.

Forse a distanza di 160 anni poco è cambiato nei meccanismi di valutazione della propria creatività nell’arcipelago e questa mostra segnerà ancora una volta l’avvio di un processo di recupero da parte giapponese della propria tradizione. Così è stato anche per i manga, oggi mezzo per eccellenza della politica nipponica del soft power verso l’estero.