Ultimo giorno, oggi la giuria con presidente Lav Diaz annuncerà il Pardo dell’edizione 2013, la prima diretta dal critico italiano Carlo Chatrian. Tempo di bilanci, dunque. Che festival è stato questo numero 66, a parte le polemiche presunte – il «caso» Sangue, film forte e stilisticamente provocatorio, considerato solo da una parte e dall’altra del confine (leggi in Italia) per la presenza dell’ex leader delle Br Giovanni Senzani. O gli «scandali» questi ancora più pretestuosi se pensiamo a film come Zone umide, in gara dal libro d’esordio di Charlotte Roche (una specie di Melissa P. tedesca?) best seller in Germania, romanzo di formazione di una ragazzetta in cerca di sé scandalosa come la scoperta un po’ stupefatta dei propri umori corporei che fanno i bambini (del resto anche l’organizzazione festivaliera ci ha messo del suo attizzando la curiosità con cartelli che annunciavano scene disturbanti).
Invece: che festival è stato è un po’ più difficile da dirsi, in genere l’impressione è che, se si esclude la sezione Fuori concorso, virata decisamente alla ricerca e alle immagini meno addomesticabili in generi e più sperimentali di filmmaker anche noti (pensiamo a Ben Rivers e Ben Russell il cui A Spell to Ward off the Darkness meritava il concorso, o almeno i Cineasti del presente), con un effetto «ghetto» aumentato anche dalla collocazione, in contemporanea alla Piazza Grande, quasi a farne un appuntamento per amici e intenditori, le altre sezioni, concorso e Cineasti del presente, hanno mescolato scelte e indirizzi in modo assai vario.

Poi arrrivano folgorazioni, magie improvvise. Educaçao sentimental (come il titolo di un disco dei Kid Abelha) di Julio Bressane (in concorso) è un capolavoro di seduzione, intesa non come ammiccamento o compiaciuto esercizio di gusto, anzi è proprio la sua «inattualità» che lo rende assolutamente contemporaneo. «Il cinema per me era uno strumento radicale di trasformazione, ma trasformare le cose è impossibile. Così ho lavorato su questa utopia, questa aporia, con la consapevolezza dello sforzo di attraversare tutte le arti. Ma al cinema si è perso il senso dello sforzo e della fatica, forse per il capitale o forse per la tirannia monetaria e bancaria che ci lascia un senso di disperazione. Il cinema è una patologia che dà lo stile, il cinema è un disturbo psichico e fantasmagorico, di cui le immagini sono fantasmi e sintomi, come in questo film» dice Bressane, che nel mito di Endimione prova a ritrovare il mito del cinema. la sua sostanza, la sua luce ( modulata dalla bravura di Walter de Carvalho). La luminosità della luna, abat jour del crimine nell’amore di una dea per un mortale. Una donna e un ragazzo. Endimione che guarda la luna e nel sonno vede qualcosa di proibito. lei è una poetessa, lui ne ascolta le parole che lo portano nelle zone più incendiarie dell’immaginario: la poesia dei poeti morti troppo giovani, Murnau e Maya Deren, il dada e il surrealismo brasiliano. É una dea la scrittrice, nel suo manoscritto segreto si cela qualcosa di potente. La sua danza è un tabù e una fascinazione.
Bressane costruisce il film sulla sua protagonista, la magnifica Josie Antello, è lei che incarna la fusione tra immagine, parola, corpo, che disegna coi suoi movimenti le traiettorie del desiderio. La seduzione è qualcosa di ineffabile, carnale e immateriale, vibrante e sotterranea. Nel «museo delle sensibilità perdute» che la donna rivela al ragazzo ci sono i cineclub e la pellicola, ai miei tempi … dice con la sapienza dell’ironia. Vero/apparenza, dentro e fuori, la finzione svelata diviene verità mai assoluta, ma possibile. Il piacere è leggerezza, libertà, irriverrenza. Gusto giocoso di un’utopia politica e poetica che fa esplodere le regole.

Nel duetto tra i due, il regista mette in scena il corpo a corpo del desiderio nella sensualità della parola, in un racconto carnale perché scanzonato: un colpo di natica alla porta un ondeggiare della gonna, la sospensione del piacere che rompe i generi: maschile, femminile sono uno e qualcos’altro un transgender che è quello del suo cinema libero, vitale, pieno di amorosa passione.
Nei Cineasti del presente, accanto a storie lacrimose un po’ da telenovela come Los insolitos peces catos di Claudia Sainte-Luce (messicano, madre malata di Aids, molte figlie da uomini diverse …), o celebrazioni del dispositivo cinematografico come in Manakamana di Stephanie Spray, Pacho Velez (prodotto dai registi di Leviathan Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor), in cui i registi mettono la loro telecamera davanti alla cabina della teleferica che attraverso la valle in Nepal sale al tempio sacro. O ancora a film che ci si chiede perché sono lì – è il caso di The special need di Claudio Zoratti, le avventure di un gruppo di amici che cercano in ogni modo di far fare sesso all’amico disabile, il quale però alle prostitute oppone il sogno del grande amore. Insopportabile commedia per un documentario «fake».

Poi capita di trovarti davanti a un film come Mouton di Marianne Pistone e Gilles Deroo, una storia che inizia col rifiuto della propria madre da parte di un ragazzo, «Mouton». Mentre la donna, che sembra un po’ fuori di testa, rifiuta la cosa mischiando grida di rabbia e dichiarazioni di amore materno davanti all’assistente sociale, il figlio è fuori dalla stanza, ripreso da lontano attraverso il vetro, come se l’immagine cercasse una forma per questa dichiarazione durissima di distanza. Da lì seguiamo la vita di Mouton, apprendista cuoco in un ristorante sulla spiaggia nel nord della Francia. La narrazione diventa questa monotonia serena, felice persino, di gesti rituali: vestirsi, infilarsi il grembiule, scaricare le cassette di pesce, le chiacchiere con gli altri ragazzi, una sigaretta. Le frasi in cucina, il pranzo alla fine del turno, e qualcosa che all’improvviso accade, l’arrivo di una giovane cameriera che gli fa battere il cuore. Il primo bacio tra i due è goffo e tenero, ed è un’epifania di cinema di una macchina da presa che i registi fanno respirare sul loro personaggio. Non soffocandolo con virtuosismi però ma in un gesto discreto, quasi a documentarne la vita, in solitudine, con gli amici, nei baci rubati in cucina con la ragazza. all’improvviso però la narrazione irrompe, dichiarata dal passaggio del racconto alla terza persona. Mouton colpito da un pazzo esce dall’inquadratura, rimangono gli amici, e una lettera che una di loro prova a scrivergli: «tutto come sempre». Mouton che ha perduto il braccio è intanto divenuto memoria collettiva, in questo film stranissimo, sospeso e insieme costruito su un’idea di regia fortissima, tra presenza e assenza. Che nella grana della immagini fa scorrrere l’impalpabile sentimento della vita.