Inaugurata sabato scorso dalle immagini di The Kid e in calendario fino al 12 ottobre, prende il largo a Pordenone la 38a edizione delle Giornate del Cinema Muto, tempio della settima arte in cui ogni anno si celebrano riscoperte e rinascite, frutto di un certosino lavoro di ricerca grazie al quale tesori nascosti e dimenticati, distrutti o perduti, tornano finalmente alla luce del proiettore e al buio della sala. Un impegno portato avanti con appassionata dedizione dal direttore artistico Jay Weissberg e dal suo team di consulenti, uniti nell’obiettivo comune di aggiungere tasselli utili non soltanto allo studio e alla valorizzazione dei primi prolifici e spesso sorprendenti anni di storia del cinema, ma validi anche per una rilettura della Storia tout court.
Tutt’altro che raro, infatti, immersi nel velluto rosso che accoglie gli spettatori del Teatro Verdi, imbattersi in opere per lo più sconosciute che sono in grado di dare un senso inedito agli eventi del passato, inquadrando alla luce del presente usi e costumi della società di un tempo, in ogni latitudine del mondo. Tra le scoperte di quest’anno, ad esempio, in un’edizione particolarmente ricca di presenze femminili, come assicura anche l’immagine deliziosa di Marion Davis sul manifesto del Festival- foto catturata da Ruth Harriet Louise sul set di Beverly of Graustark (Il principe azzurro) – i recuperi sbucati fuori da archivi e cineteche guardano sia a Est che a Ovest, all’Asia e all’America latina.

A TENERLI insieme è il fil rouge della Storia secondo un’ottica che potremmo definire guerrigliera, rivoluzionaria, talvolta controversa: la lotta, l’insurrezione, il razzismo, sono i temi che attraversano Fen Dou, capolavoro del cinema cinese datato 1932 e considerato per decenni perduto; El último Malón, risalente al 1918, incentrato sulla repressione violenta dell’insurrezione della tribù Mocovì contro la popolazione bianca di San Javier, nella provincia di Santa Fé in Argentina; The Aryan, coevo di Birth of a Nation e accomunato a Griffith dalla questione razziale cui si aggiunge una sfacciata forma di sessismo. Di questo film, della cui copia originale americana si sono perse le tracce, è stata ritrovata la versione distribuita in Argentina e rimaneggiata nel 1923, conservata al Museo del Cine di Buenos Aires con il titolo La fiera domada.

Fen Dou (La lotta), firmato dal regista Dongshan Shi nel 1932, è di certo tra le scoperte più interessanti, inaspettato soprattutto in termini di originalità e maturità stilistica. Doverose alcune premesse: la casa di produzione Liamhua era stata fondata nel 1930 con il sostegno finanziario del Kuomintang (KMT), il partito nazionalista allora al potere. Ispirandosi al modello del Luce, si poneva come obiettivo la promozione del Movimento Nuova Vita attraverso il cinema, veicolando l’immagine di una gioventù aitante e attraente, forte nel corpo e nello spirito (e evidentemente anche nella fede politica). Sono gli anni del conflitto col Giappone e della diffusione dell’ideologia marxista nella nuova Cina. La rappresentazione idealizzata delle giovani generazioni, riprese nell’emblematica sequenza di apertura in tenuta atletica mentre intonano canzoni patriottiche, risponde con evidenza alla volontà di costruire un’immagine identitaria rinnovata del Paese. Il regista Dongshan Shi apparteneva alla Lega dei Drammaturghi (a forte prevalenza comunista), dove era in atto un dibattito sul cinema marxista, criticato a volte per l’impostazione eccessivamente didattica e per l’uso troppo «intellettuale» del montaggio secondo l’idea di Pudovkin.

 

Fu quindi per andare incontro alla richiesta di un cinema più attento alla forma, al rapporto tra realtà e rappresentazione, a una percezione emotiva che non rinunciasse al messaggio politico, che Dongshan Shi decise di inserire una trama romantica nel testo filmico, dimostrando non solo abilità tecniche davvero stupefacenti (fluidi movimenti di macchina, carrelli, l’uso del teleobiettivo) ma anche una raffinata sensibilità narrativa senza pari nella Shanghai dell’epoca. La storia mette a fuoco la rivalità di due amici innamorati della stessa ragazza. Entrambi sono operai ma mentre Zheng è bello e sensibile, Yuan è corrotto dalle sirene della borghesia e dalla brama di sesso e denaro, un individualista che non conosce la solidarietà e che si dimostra vigliacco pure quando è chiamato alle armi contro i giapponesi.


I CONFLITTI di classe, evidenti nella rappresentazione «verticale» della vecchia abitazione che si vede all’inizio del film, con i piani alti occupati dai proprietari feudali, la classe operaia ai piani medi e gli intellettuali, trasformati in contadini al piano inferiore, sono mitigati dalla presenza della storia d’amore, ma il coté politico resta evidente, forse persino più efficace sotto una facciata meno esplicitamente ideologica. Anche l’altro film riemerso, El Último Malón, si fa notare sia per il contenuto che per la forma. L’insurrezione della tribù dei Mocovì repressa nella violenza nel 1904 dopo decenni di oppressione, viene trattata tredici anni dopo dal regista Alcides Greca secondo modalità narrative totalmente inedite per i tempi, addirittura preconizzando quel particolare approccio dal piglio «antropologico» di uno dei padri fondatori del documentario: Robert Flaherty. La ricostruzione degli eventi sposa il punto di vista degli indigeni, mentre i bianchi sono relegati in secondo piano, al ruolo di comparse. Inoltre, l’intento di Greca non è solo quello di indicare le cause della rivolta, ma anche di osservare abitudini e usanze dei Mocovì, «la storia autentica di una popolazione americana forte ed eroica nella giungla del Chaco» recita una didascalia scritta a mano prima del film. La comunità permise al cineasta di avvicinarsi e osservare la vita quotidiana al villaggio, le abitudini di caccia, il duro lavoro negli allevamenti. Con una verità probabilmente superiore a quella pretesa da Flaherty pochi anni dopo nel seminale Nanook l’eschimese.

 

SEMPRE per ragioni produttive, anche qui fu introdotta nella trama una storia d’amore, che neanche in questo caso, come in Fen Dou, compromette la forza della denuncia politica di un film che, riscrivendo le regole del documentaire romancé, contribuisce a contrastare le menzogne razziste che dipingevano gli indigeni come selvaggi.
Infine The Aryan, western del 1916 firmato da William S. Hart, il quale contribuisce personalmente alla scrittura del protagonista, Steve Denton, un duro senza cuore incattivito dal dolore, introducendo elementi autobiografici che ne giustificassero la crudeltà, probabilmente ignaro delle teorie razziali pseudo scientifiche chiamate in causa.

DOVEVA invece esserne al corrente C. Gardner Sullivan che firma la sceneggiatura del film. Il termine «ariano» era approdato sugli schermi cinematografici nel 1915 con l’opera di Griffith ed è possibile che Sullivan volesse intervenire sviluppando ulteriormente il concetto. Di certo tra i due film c’è più di un legame, dimostrato anche dalla presenza nel cast di Mae Marsh, che in Birth of a Nation si faceva notare per aver scelto la morte al disonore nella famosa scena del tentato stupro.
The Aryan presenta una trama tipicamente western, con un uomo che vive secondo le proprie regole ai confini della legge. Arriva dal selvaggio West, si ritrova contro una comunità e se la prende con le ragazze del saloon giurando vendetta verso tutto il genere femminile. Molti anni dopo, arricchito dai profitti di una miniera di sua proprietà ma sempre insensibile e brutale, è raggiunto da una carovana di pionieri che invocano cristiana pietà. E mentre la banda di Denton sta per assalire le donne, un coraggioso innocente lo ferma per ricordandogli la presunta superiorità morale datagli dall’appartenenza alla razza ariana.
La copia sopravvissuta del 1923 presenta sicuramente delle differenze rispetto all’originale, «ripulita» delle forme più esplicite di razzismo per adattarsi e andare incontro al nuovo pubblico. Ma è senz’altro curioso che il tentativo argentino di rimuovere il conflitto razziale spostando il peso sulle problematiche di genere, abbia dato vita a un film ancora più sessista e misogino.