Ho conosciuto Piero Pizzi Cannella, detto Pizzi, all’incirca nel 1983 quando, con i suoi cerulei occhioni languidi, somigliava tale e quale a Jean Gabin, non era ancora fidanzato con la sua musa ispiratrice (Rossella Fumasoni, pittrice, moglie, madre di suo figlio, compagna di strada ormai ventennale), e già produceva quadri da far girar la testa.

Nel maggio 1984 all’Attico, durante la mostra «Extemporanea» – sottotitolo: «Otto artisti all’opera sotto gli occhi del pubblico» (Maurizio Corona, Giancarlo Limoni, Enrico Luzzi, Silvio Merlino, Nunzio, Pizzi Cannella, Sergio Ragalzi, Marco Tirelli)) – in tre giorni, da mezzogiorno a mezzanotte, la sfida consisteva nel completare un’opera da zero. Pizzi materializzò dal nulla, su una tela 6mt. x 3mt., tre sottovesti bianche svuotate dai corpi, fantasmatiche assenze vibranti, quadro che fu designato dalla giuria (Bonito Oliva, Bucarelli, Menna, Rubiu, Lambarelli) il migliore.

Da allora sono accadute tante cose: mi è capitato di scrivere testi per lui, l’ho intervistato due volte per miei documentari, ho partecipato a numerose sue mostre.

Da Pommidoro, al Pastificio, per le strade di San Lorenzo tutti lo chiamano Maestro. Noi abbiamo continuato a volerci bene, frequentandoci in maniera alterna, come sempre nella vita.

Dal dizionario: «prodigalità» s. f. 1. L’esser prodigo, qualità di chi è prodigo, tendenza a spendere o a donare con larghezza eccessiva e senza riflessione. 2. Azione, comportamento da persona prodiga, sperpero di denaro. Cosa intendi tu per prodigalità?

La prodigalità è una proprietà insita nell’arte, perché se l’arte non avesse questa capacità di non essere avara, di non essere fatta per se stessi, non avrebbe nessuna ragione di esistere. È un presupposto basilare per tutta l’arte e per l’arte contemporanea nella fattispecie, perché in altri momenti storici l’esecuzione di un’opera era legata a dettami politici e religiosi. È inevitabile essere prodigo per un artista, è quasi un obbligo.
Mi viene in mente il modo di dire «essere di manica larga».

Com’è la tua manica?

Certo non sono di manica corta. Nella cultura popolare romana, a volte questa attitudine viene vista in maniera riprovevole, potrebbe essere considerata un difetto. Come si può vivere senza maniche? Senza maniche sei volgare.
Ti conosco come uomo generoso, disponibile verso gli altri.

Qual è stata l’azione prodiga più stravagante nella tua vita?

Ne ho fatte tante, al di là di fare l’artista che la considero una condizione principe all’interno di questo discorso, nella vita comune ho cercato di fare delle cose che potevano aiutare qualcuno. Vorrei che il mondo fosse fatto di persone felici, faccio l’artista per questo, per trovare in ogni uomo la possibilità di essere felice. Fare dei pozzi d’acqua in Africa dove non c’erano, è stato uno dei momenti in cui ho apprezzato la possibilità di essere prodigo, lo stesso è stato fare gli ospedali in Afghanistan. Mi sono occupato diverso tempo di queste problematiche, dove l’arte funzionava per pagare tutto questo, in qualche modo ci siamo riusciti.
Dante mette nel quarto cerchio dell’Inferno i peccatori di incontinenza: avari e prodighi, condannati a spingere enormi massi, divisi in due schiere che quando si incontrano si ingiuriano.

Tu sei più prodigo o più avaro?

Ho sempre pensato che il quarto cerchio dell’inferno è uno dei luoghi più incongrui nella storia della letteratura e del pensiero umano, mettere insieme delle persone che lo sai da principio che sono agli opposti è una cattiveria di Dante. Credo che nell’inferno esista anche un modo sereno di vivere, nel senso che sei cosciente di quello che hai fatto e pronto a pagare la tua pena, certo obtorto collo, ma lì, nel quarto cerchio, oltre alla pena, tutti i giorni devi convivere con chi la pensa contrariamente a te, è una forma di matrimonio, è un po’ come a scuola.

Nel Vangelo di Luca invece si trova la parabola del figliol prodigo che torna a casa dopo aver sperperato i beni familiari e viene perdonato. Cosa pensi di questa parabola?

Il figliol prodigo non ha un progetto iniziale, segue soltanto la sua natura, non sa che tornerà un giorno, io lo assolverei perché è soltanto qualcuno che decide di vivere la sua vita in un certo modo, il fatto che poi le vicende avverse lo portano a tornare a casa non sono frutto della sua perversione, ma è soltanto il caso, non vedo il reato. Capisco la malafede di alcuni, nel figliol prodigo non c’è.

Sei stato, a tua volta, oggetto di prodigalità? Se si, di chi?

Mai, no.

Hai mai letto «Iil giocatore» di Dostoevskj? Lo hai amato? È tra i tuoi libri feticcio?

Si, l’ho letto circa 56 volte. Per alcuni Natali compravo trenta copie de Il giocatore e lo regalavo a tutti i giocatori.

Tu che tipo di giocatore sei? A quel che so mi risulta che tu vinca spesso. Ti è mai capitato mentre giocavi di pensare che sperperavi i tuoi beni e di finire nel quarto cerchio dell’Inferno?

No. Vincere o perdere è un luogo comune, ma per un giocatore non è molto importante. È preferibile vincere. Il gioco, per molti anni, è stato il luogo free, una specie di possibilità di mettere a tacere la propria coscienza. Un artista è pensa tutti i giorni a quello che fa, devi trovare una via di fuga da questa ossessione che è vitale per l’arte ma oppressiva per l’uomo. Il gioco d’azzardo è stato per molto tempo la mia via di fuga.

«L’ozio è la più grande prodigalità», disse Benjamin Franklin. Che ne pensi?

L’ozio non lo conosco, io sono un pittore quindi ho bisogno di fare qualcosa ogni giorno. Ne ho sentito parlare, ma non so cosa sia.

Aristotele dice: «A padre avaro figliol prodigo». Hai avuto un padre avaro?

Mio padre era peggiore di me, semmai era prodigo in maniera eccessiva. Ti racconto un piccolo episodio: fece la campagna di Africa, tre anni di guerra in Africa, perché scendendo in piazza una mattina incontrò un suo amico che piangeva perché era stato chiamato a fare la guerra. Mio padre disse, perché piangi, e l’altro: perché devo andare a fare la guerra in Africa, mi dovevo sposare, e mio padre disse vabbé ci vado io, e parti al suo posto. É stato via tre anni, era fidanzato con mia madre che lo lasciò e lo perdonò solo al suo ritorno. Quindi non posso dire di avere un padre avaro.

E tu che padre sei?

Sono uguale, sono pronto a perdonare e a dare tutto quello che mi chiedono, in maniera colpevole perché so che sbaglio, ma d’altra parte su cosa dobbiamo sbagliare se non su questo…

Come giudichi l’avarizia? E la prodigalità? Soprattutto ha senso giudicare queste attitudini?

Non c’è un metro di giudizio per giudicare, conosco tante persone avare felici, mentre conosco tante persone prodighe infelici; non è come la Lazio o la Roma, qualcuno vince e qualcuno perde, è soltanto un modo di essere, di pensare il mondo. Certo gli avari non mi sono molto simpatici.

Ricordi come ti avevo soprannominato nell’83, durante «Extemporanea», quando si scommetteva sul vincitore? Ti avevo chiamato «Pizzi, il padre dei vizi». Di quale vizio ti senti più padre?

Posso raccontarti un piccolo episodio: un giorno mio padre aveva vinto a carte, era un giocatore, e mi regalò dei soldi, io dissi grazie, poi salendo in ascensore verso casa mi disse: «Ho conosciuto gente col vizio del gioco, delle donne, dei cavalli, delle macchine da corsa, della droga, tu, figlio mio, ce li hai tutti». Omise l’arte contemporanea che, non lo dimentichiamo, va considerata tra questi vizi.

E da quale dei sette peccati capitali sei stato più colpito? L’accidia, la gola, l’ira, l’invidia, la superbia, la lussuria, l’avarizia?

A freddo, alla mia vetusta età, direi l’accidia. Cerco di evitare ogni contatto, negli ultimi tempi, col genere umano, quindi presumo di rientrare in questa categoria.
Terminata l’intervista io e mio figlio gironzoliamo per lo studio tra anfore, lucertole, un vestito rosso, mappe, moschee, isole che non ci sono … Pizzi chiede a Flaviano di che segno è e gli regala, con dedica sotto il segno dell’acquario, una litografia di uno zodiaco fatto da lui. Andiamo via a mani piene della manica larga di un grande amico, grande artista.