Louise è un’attrice che non vuole più recitare, ai set preferisce la vita, l’amore, vorrebbe avere un figlio. E poi c’è quel castello di famiglia, il luogo dei ricordi di bambina, di quella spensieratezza invincibile quando il mondo visto dal giardino sembrava con le sue minacce qualcosa di lontanissimo. La madre vuole venderlo, il sindaco del paese farne un parco pubblico, si oppongono lei e l’amato fratello, Ludovic, l’uomo della sua vita, che sta male, e potrebbe morire presto. Poi c’è Nathan, quel ragazzo giovane, bello e imbronciato con cui Louise vive un amore speciale, qualcosa di prezioso e di complicatissimo. Ma non sono tutte impossibili le storie d’amore? Un castello in Italia è il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi, anche protagonista nel ruolo di Louise, che con un candido sorriso da ragazzina, volteggia leggera tra lacrime, istanti di gioia, sorprese, nevrosi. Come nei film precedenti, É più facile per un cammello e Attrici, anche qui la regista ritrova la prima persona degli ambienti che conosce bene, e a cui appartiene, ovvero l’alta borghesia coi doppi cognomi e il mondo del cinema. Ma sempre senza presunzione, o generico giudizio. L’autofinzione di una biografia familiare persino «sfacciata» – il doppio cognome che nel film diviene Rossi Levi – e che si sposta tra Castagneto di Po, sede del maniero familiare, e Parigi, trasforma il paesaggio privato in commedia,in riso e in pianto, in uno slapstick emozionale di cui Bruni Tedeschi fa vibrare le corde con sapiente dolcezza. «La cosa più importante per me è trovare una storia» ci dice al telefono da Parigi, la voce un po’ roca. «Sto parlando tantissimo questi giorni» quasi si scusa. Un castello in Italia, che da noi esce domani con Teodora film, è infatti appena uscito anche in Francia, dopo la presentazione allo scorso festival di Cannes, unico film «femminile» in gara. Ed è infatti un magnifico ritratto di donna, impudico, divertente, di chi sa esporsi nelle sue fragilità e nel suo fascino senza paura di giocare (ironicamente) con se stesso.

I suoi film si ispirano sempre alla sua vita trasformandola in un universo narrativo. Come lavora?

Inizio a scrivere le scene, i dialoghi, piano piano si tratteggiano i personaggi, e poi accade qualcosa … In questo film avevo davanti a me due storie, una storia d’amore e una familiare, la sfida era riuscire a farle incontrare. Posso dire di avere trovato il film quando il personaggio del fratello di Louise, Ludovic (Filippo Timi, ndr) conosce il fidanzato di lei, Nathan (Louis Garrel); i due si guardano un po’ con sospetto, tra Louise e Ludovic c’è un rapporto fortissimo, quasi da innamorati, infine Ludovic lo accetta. In quel momento anche le due linee narrative si sono unite. Sono stati molto importanti due film, Il giardino dei Finzi Contini e Salto nel vuoto, è da lì che mi sono ispirata per descrivere la dimensione familiare, in particolare il legame tra i due fratelli, Louise e Ludovic.

Racconta storie sono intime, e personali,  con molto umorismo. Anche nei momenti di tristezza, di dolori profondi c’è un sorriso, uno scatto buffo. È una dote speciale.

L’aspetto tragicomico fa parte della vita, o almeno del mio modo di farci i conti. È un po’una scommessa che faccio con me stessa, catturare il comico che irrompe all’improvviso in un momento della tua esistenza. Prendiamo la scena del funerale di mio fratello col prete che arriva in ritardo: può accadere, accade anche nella realtà, siamo sommersi dalla disperazione ed ecco che il prete non arriva.

Lei è anche molto autoironica. Louise, il suo personaggio, è goffa, fa pasticci, è nevrotica … Mi viene in mente una scena, quando Louise arriva Napoli perché le hanno detto che in quella chiesa si compie il miracolo della maternità. È puro slapstick.

L’ironia riguarda tutti i miei personaggi, per me è un piacere, ed è fondamentale. È un’ironia che mescola crudeltà e tenerezza, perché li amo naturalmente, e che affiora già nella scrittura. Anche per questo mentre scrivo penso subito agli attori. Ma credo che per un autore sia indispensabile sapere giocare con se stesso. Rispetto alla scena di cui parla, rappresentava anche un modo per esplorare un po’ il rapporto con la religione, che nel film è molto presente. Marisa (Marisa Borini), la mamma di Louise, è religiosa anche se litiga con la Vergine. Louise invece si trova alla «periferia» della fede ma non riesce a entrarvi. Mi piaceva l’idea di ambientare la scena a Napoli, che segna quasi una frontiera tra religione e superstizioni.

I luoghi sembrano importanti nella storia, quasi come se fossero dei personaggi con una loro fisionomia emozionale. E non solo il castello del titolo.

Il castello naturalmente è il cuore, volevo filmare il parco, gli esterni, è molto cinematografo. E soprattutto appare come uno spazio quasi protetto, dove l’esterno di morte, di malattia non potrà mai entrare pure se poi sappiamo che non è vero. L’appartamento di Parigi, che è l’altro centro narrativo, ha invece una natura più intima, è dove si vive la storia d’amore tra Louise e Nathan. Il modo di filmare cambia secondo dove ci si trova. Io filmo solo i posti e le persone che conosco, non amo parlare di mondi dei quali non ho esperienza. Avrei voluto mettere più scene con le persone che lavorano al castello, li avevo immaginati come un coro greco che commenta le azioni dei protagonisti. E anche la figura dell’amico di famiglia, interpretato da Xavier Beauvois, vuole esprimere uno sguardo esterno, qualcuno che non è dentro la famiglia.

Ha lavorato alla sceneggiatura insieme a Noemie Lvovsky, che è anche una regista, con la quale ha condiviso la sua esperienza cinematografica dagli inizi. E poi, appunto, Xavier Beauvois, registe pure lui, tutti quanti protagonisti di una generazione del cinema francese. É importante la complicità nel suo lavoro?

È una grande forza, non si può essere soli in questo mestiere. E le complicità sono quelle con le persone che conosci ma anche quelle che si creano con le persone nuove. Al di là del film è meraviglioso parlare, scambiarsi dei dubbi … L’incontro con Filippo Timi è qualcosa che va oltre questo film. Pensare che non ero convinta all’inizio che fosse l’attore giusto per il ruolo di mio fratello, poi è scattato qualcosa tra noi ed è diventato lui. Xavier Beauvois da regista mi ha dato consigli preziosi, e così Louis Garrel che veniva sul set pure quando non girava. Ci si scambiano i ruoli, ci si danno consigli, ci si guarda, si scrive, si legge, si discute, si litiga, in fondo è come una famiglia. La solitudine in questo lavoro è insppportabile.

Ci sono film che l’hanno ispirata particolarmente o che le sono piaciuti negli ultimi tempi?

Ho amato La guerra è dichiarata di Valerie Donzelli, e Miele di Valeria Golino, mi piacerebbe lavorare con lei da attrice. Poi ci sono tante cose che mi ispirano e tanti registi con cui amerei lavorare, che è sempre un po’ imbarazzante dirne solo qualcuno. Nei classici Cassavetes, Bergman, Truffaut, secondo i momenti della mia vita. E Moretti, e Allen, ma anche Almodovar sono registi di cui aspetto sempre il nuovo film. Mi è piaciuto tantissimo Io e te di Bertolucci, anche con lui vorrei lavorare di nuovo, abbiamo fatto un corto insieme ma rispetto a lui mi sento come qualcuno che non ha mangiato abbastanza.