Iniziando dai libri, a fronte del mio scetticismo verso la letteratura contemporanea – povera di forme, tutta tesa a imbastire trame «in parole povere» -, un certo interesse suscita Serotonina di Houellebecq, che negli anni ha mantenuto intatto il suo célinismo, uno sguardo spietato sulla miseria del mondo e su qualche freddo lampo di bellezza. E ci deve essere una simile freddezza, tutta cerebrale, a ispirare i redattori di «Pitchfork», perché se ascolto i dischi messi ai primi 10 posti della loro classifica per il 2018, trovo solo algide, programmate, lambiccate decostruzioni del motivo, brandelli di linguaggio che vagano, morti nello spazio. Mentre verso la sperimentazione entro il «costrutto» musicale si sono sempre mossi i Deerhunter inaspettatamente così esplicitamente inneggianti alla vita in Living my life (singolo di Fading Frontier di tre anni fa) attesi al loro nuovo disco; per non dire dei Toy reduci da un album anodino e in predicato ora di tornare a certi ritmi kraut che erano stati soprattutto di Join the dots. Dei Tool non dico nulla, perchè chissà se uscirà davvero il loro nuovo, ormai leggendario album.

INSOMMA una vitalità, l’immaginare forme di vita, che è auspicabile innervino sempre ogni soluzione linguistica, come quella, venendo al cinema, di Gabriel Mascaro già autore di un vero e proprio miracolo qualche anno fa, Boi Neon, presentato a Venezia, e ora alle prese con il suo nuovo film in uscita nel 2019 dal titolo Overgod. Poi ci sarà il Tarantino di Once Upon A Time In Hollywood che manterrà tutte le promesse possibili e The Beach Bum di Harmony Korine già così folle, in deliquio psichedelico, solo guardando foto e trailer. Com’è anche per Glass, il film che chiude la trilogia dei supereroi di Shyamalan, dopo quelli che probabilmente sono i suoi due film più belli: Umbreakable e Split. Mentre Garrone si misura con Pinocchio: impresa quasi impossibile se si pensa al precedente di Comencini, mai più eguagliato; ma Garrone è nel pieno della sua maturità artistica, in piena pietas, quindi le premesse sono ottime.

INFINE due film tra storia, psiche e mito: Memoria di Weerasethakul ambientato nella Colombia degli anni Settanta e Ottanta, per indagarne la violenza e la paura; e Bergman Island di Mia Hansen-Løve che, attingendo alla sua impassibile irrequietezza, al suo forte senso esistenziale, segrega una coppia americana sull’isola bergmaniana di Farö.