Difficile dire se la scommessa della Warner Bros – sacrificare il pieno potenziale economico del listino 2021 in virtù del rilancio del canale via streaming Hbo Max- darà i frutti sperati dalla At&t, ma è sul canale streaming dello studio di Jack Warner e di Bugs Bunny che stanno (seminascosti nel bazar generale) due dei migliori film del 2020, e due film che «chiedono» con prepotenza lo spazio della sala. Non sono né TenetWonder Woman 1984 ma, paradossalmente, due opere da camera, girate come sono quasi interamente in uno stesso luogo.

«LE STREGHE», di Robert Zemeckis, avrebbe in realtà dovuto uscire nei cinema (così è stato visto l’autunno scorso, nella sezione Alice della Festa del cinema di Roma), ma è stato ridiretto su piattaforma causa Covid. Nato come un progetto che Guillermo Del Toro voleva realizzare in animazione passo uno (tecnica che il regista sta usando per il suo Pinocchio, finanziato da Netflix) e coprodotto, oltre che da Del Toro anche da Alfonso Cuaron, il nuovo adattamento del libro di Roal Dahl, nelle mani di Zemeckis diventa, allo stesso tempo, un oggetto più classico e più rivoluzionario (sia tecnologicamente che politicamente) del film che Nicolas Roeg trasse dello stesso testo (con l’indispensabile aiuto di Jim Henson), nel 1990, dieci anni dopo l’uscita del libro. È un… ritorno al futuro. Dall’Inghilterra e dalla Norvegia di Dahl, il nuovo Le streghe si sposta nell’Alabama degli anni sessanta. Un salto temporale, a detta di Zemeckis, inteso a evitare telefonini e telecamere di sorveglianza, che avrebbero disturbato la credibilità della storia, ma che trasportando il racconto indietro nel tempo ha l’effetto di attualizzarlo all’America di Black Lives Matter – intenzione che probabilmente lo stesso Del Toro avrebbe condiviso. Ribattezzato «hero boy», il piccolo protagonista (Jahzir Kadeem Bruno) che perde i genitori all’inizio del film e va a vivere con la nonna (magnifica, Octavia Spencer) diventa, nella sua versione adulta e topesca, il soggetto narrante del film (in inglese la voce è quella di Chris Rock, perfetta per un roditore). Zemeckis accentua visivamente la dimensione favolistica già introdotta dal voice over (e dall’apertura del film, in stile Mistery Science Theater, con bambini ripresi da dietro di fronte a uno schermo cinematografico) sia nella raffigurazione dell’incidente d’auto nelle scene a casa della nonna, che seduce il nipotino depresso e inappetente con le sue storie e con la musica. Quando i due, dopo l’apparizione minacciosa di una strana signora, e la misteriosa tosse che colpisce grandma, cercano rifugio in un grande albergo sul mare che ricorda una piantagione sudista diretta da Stanley Tucci, il salto nel soprannaturale è spontaneo, dolcissimo e terrorizzante.
Il potere sovversivo del libro di Dahl, ha detto Zemeckis, sta nell’impenitenza maligna delle streghe (che lui trova «diabolicamente deliziose» e a cui dà un «glamour hitchcockiano») e nella loro determinazione totale di distruggere i bambini – Witches hate children. Nel suo film, al posto di Anjelica Huston (nella versione di Roeg) sono capitanate da Anne Hathaway. Nelle mani del regista di Chi ha incastrato Roger Rabbit? il digitale è da sempre uno strumento raffinato e prezioso, usato con un’attenzione da miniaturista (l’opposto di Tenet e Wonder Woman 1984), sia negli effetti speciali (i volti, gli artigli delle streghe) che nelle soluzioni di macchina. E così le cucine, i corridoi, i condotti di aerazione, le terrazze e le stanze dell’albergo, diventano uno sterminato parco giochi per gli inseguimenti tra i bambini trasformati in topi e le streghe. Nascosto dietro a un’ambizione meno «alta» di quella che stava dietro a titoli come The Walk, Flight o Benvenuti a Marwen, e alla natura composita di un progetto passato per mani diverse, Le streghe è un film bellissimo.

Anne Hathaway in “Le streghe”

HANNO QUALCOSA di vagamente streghesco (un’altra delle cose che accomunano i due film) anche le protagoniste di Let Them All Talk, di Steven Soderbergh, come Zemeckis uno dei (pochi) grandi autori di mise en scene del cinema americano contemporaneo. L’uscita in sala non era nemmeno prevista per questo suo ultimo lavoro nato, secondo la leggenda, dalla scommessa/desiderio di realizzare un film nell’arco di un viaggio transatlantico sulla Queen Mary 2. Se Soderbergh ogni tanto imposta le premesse dei suoi film come dei rebus diretti a sé stesso Let Them All Talk è l’esatto opposto di un film stratagemma. Per scriverlo, il regista e il suo co-sceneggiatore e produttore di sempre Gregory Jacobs hanno chiamato la nota autrice di racconti brevi Deborah Eisenberg. E il racconto, come il gusto per, è anche il soggetto del film. Insieme all’amicizia.
Alice (Meryl Streep, nuovamente con il regista dopo Panama Papers) è Alice, nota autrice di best seller con la fobia di volare che – dovendo ritirare un premio importante in Inghilterra – si fa convincere dalla sua agente (Gemma Chang) a fare il viaggio a bordo della mitica nave. La condizione: poter portare degli ospiti, che si rivelano essere due amiche di gioventù che non vede da anni (Diane Weist e Candice Bergen) e il nipote (Lukas Hedges) con cui spera di intrattenerle mentre finisce il nuovo romanzo. Armato di tre cineprese e di una troupe piccolissima, Soderbergh «infiltra» la vita, i luoghi e i tempi del viaggio in nave con precisione militare e naturalezza altmaniana (Eisenberg lo ha accompagnato a bordo, per supportare le attrici nei dialoghi, in gran parte improvvisate sull’outline delle specifiche scene). A complicare l’intrigo, e i rapporti, il fatto che il romanzo più famoso di Alice (e di cui forse sta scrivendo un seguito) avrebbe preso a piene mani dalla vita spericolata di una delle due amiche, Roberta (Bergen), che gliene vuole tutt’ora e che ha accettato l’invito con l’obbiettivo di «rifarsi» di quel furto, magari trovando un a bordo un marito ricco che la sottragga al banco dei cosmetici del grande magazzino in cui si sono spenti i suoi sogni di ragazza. Servendosi del labirinto di confortevoli superfici dorate della nave, Soderbergh unisce e separa i personaggi (a cui si aggiungono, in incognito, l’agente e un autore di pot boiler alla Grisham) con grazia appuntita. L’arrivo a destinazione giunge quasi troppo presto, il finale comico/malinconico come si deve.