Il desiderio di tradurre è, a volte, una passione enigmatica e potente, che confina con una forma misteriosa di coazione, un godimento vicario sfumato di sensi di colpa, tensioni ideali, trionfi segreti e miserie quotidiane. E, soprattutto, guidato nel suo duello paziente con l’elusività dei testi originali da quella che Nabokov chiamava la «frustrazione ottimale» del traduttore: un artefice che non ha il diritto di trarre soddisfazioni primarie dal suo lavoro, vale a dire produrre un’opera che piaccia a lui prima di tutto; ragion per cui non può essere né credersi artista.

Perché allora si cerca piacere nel tradurre? I diversi, ottimi libri sulla traduzione letteraria usciti negli ultimi anni si sono concentrati quasi esclusivamente sulle questioni tecniche o sull’impegno etico che l’interprete della voce e del mondo linguistico altrui deve portare in campo. Massimo Bocchiola, che negli anni ha tradotto scrittori come Thomas Pynchon, Martin Amis e Paul Auster, parlando delle proprie esperienze di traduzione in Mai più come ti ho visto (Einaudi, pp. 211, euro 18,00) fa un passo di lato: sceglie di stringere il suo discorso attorno al piacere di tradurre, e lo fa partendo da una prospettiva dichiaratamente personale. Non è dunque un caso che il suo libro si inauguri, in esergo, con il più provvidenziale dei parafulmini, il famoso caveat gaddiano contro la prima persona («…io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!»).

Che si faccia per colmare un vuoto, perché si è «scrittori senza idee», o per dedizione quasi missionaria verso una cultura altra, oppure per scavarsi la strada verso una propria lingua, l’assunto evidente per Bocchiola è che tradurre letteratura è un piacere a sua volta nato da un desiderio di appropriazione. Poi, sull’onda di una passione che è gioco, investigazione inesausta e curiosità verso i mondi altrui, si sviluppa in un dono fatto agli altri.

Al punto che un periodo trascorso senza tradurre genera in lui – scrive Bocchiola – non solo la rottura di una routine vitale, ma l’allontanamento da una condizione di felicità. «Quando ho incominciato a tradurre accostando man mano frasi e parole altrui, mi sembrava di allestire una mia idea di futuro, un’idea di me. Adesso a quell’idea mi piacerebbe potere far corrispondere il mio passato – e quindi, in buona parte, anche il presente, visto che da un certo punto della vita in poi il passato comincia a essere quasi tutto». Siamo dunque di fronte a un tentativo di ricomposizione, un viaggio anche ironico tra autori diversissimi che convoca prima di tutto una biblioteca mentale, una storia di lettore appassionato e caparbio: Mallarmé, Beckett, Gadda, Caproni, ma anche le «parole incerte» riscattate dalla musica delle arie d’opera di Bizet e di Verdi, il cinema, le canzoni.

Tornare a distanza di anni sulle proprie pagine tradotte ripensando al momento del loro comporsi significa per Bocchiola giudicarle, scioglierne le trame nascoste, le motivazioni, illuminarne le suggestioni magari inconsapevoli, magari sonnamboliche che lo hanno guidato verso una scelta accettabile o definitiva. Il libro si dipana nel tempo attraversando le stagioni, dall’aprile eliotiano che sveglia «lillà nella terra morta» fino all’estate. E, peregrinando fra i viottoli e le strade maestre dei ricordi testuali, si impara anche qualcosa sulla vicenda biografica del traduttore, sui luoghi dell’Oltrepò pavese dove vive, sulla sua famiglia e sulle storie che ha attraversato, sulla sua passione per il rugby e il calcio.

Certo, il traduttore non è un medium muto, un mero esecutore, ma è un soggetto storicamente determinato e attivo. E però, il suo costante riferirsi al rapporto con il tradurre permette al racconto privato di non tracimare in eccesso sulla pagina, e alla visibilità del traduttore di non giungere a un punto di estrema invasività. Perché se parla di sé è per illuminare le parole altrui cui ha dato voce, le loro ragioni riflesse nel proprio fare.

Il percorso è tripartito (sogno, memoria e gioco), secondo una linea che va dall’Io al mondo immaginale, alla comunità dei lettori e dei viventi. La parte del sogno racconta la traduzione come scoperta adolescenziale, sulla scia della passione per i poeti, e come volontà di appropriazione, esercitata su immagini dense di potenza enigmatica: la maschera funebre d’oro che copre il vuoto (nel Re di Asìne di Seferis), i petti di pavoni uccisi o il peplo sospeso in aria della Crisotemi di Ritsos. Nelle pagine dedicate alla memoria emerge la condivisione delle parole con le ombre, con gli altri, con i morti. La traduzione vive di dettagli nascosti, in strade indirette, rimbalzi di sponda e riflessi: a volte è costretta a fare un giro lungo per giungere all’espressione compiuta. Càpita così che per tradurre London Scottish di Mick Imlah Bocchiola debba recuperare il proprio bilinguismo nel dialetto, chiedendo aiuto alle parole del nonno reduce di Caporetto, per elaborare una versione intermedia che lo condurrà finalmente a una versione in italiano libera da condizionamenti.
Nel gioco vive il piacere di una libertà condizionata, della risoluzione degli enigmi, ma anche il rapporto profondo con gli autori tradotti. Lo si vede con Pynchon, la cui oltranza lessicale e sintattica fa scoprire a Bocchiola le possibilità di una scrittura in proprio, a lungo covata.

La chiave di Mai più come ti ho visto è fondata su un atto di «dismisura verso l’originale», ed è inscritta in un paradosso fondamentale: il voler sfuggire al senso di finalità del racconto ma anche, guardando alla vita, conservare l’ambizione di una trama; tradurre consente di ri-presentare il lontano, reimmaginare un ricordo non nostro o riscattare il disamore per il passato che ci riguarda; ma uno dei suoi scopi, forse quello più radicale, è proprio tener lontano il lutto, opporsi al tempo, sapendo che l’unica perfetta, definitiva traduttrice è proprio la morte. Le parole del tradurre riemergono da un mosaico memoriale che si compone nella mente, fatto di una trama di echi e richiami, di cadenze, catene di voci altrui incorporate, rivissute: i profondi fori del Dante infernale possono tornare in Lorca, e il «lamento / (il canto!) del lamantino» di Caproni intrecciarsi all’allitterante, comico «dugongo» di Nabokov.

Proprio Giorgio Caproni diceva spesso che la traduzione lo aveva costretto a svegliare zone della coscienza che altrimenti sarebbero rimaste addormentate e inerti. Nulla di più vero: il traduttore, fatto di parole altrui, interroga le soglie, è costretto ad aprirsi a spazi dell’esperienza che altrimenti gli sarebbero preclusi, a elaborare risposte, ma sapendo che il tempo avanza e ogni traduzione è presa in quel divenire, perché ogni parola non è mai l’ultima. Bocchiola si rende conto del rischio che il viaggio a ritroso fra le ragioni del suo tradurre venga preso da alcuni per compiacimento, e dell’ambivalenza profonda insita nella possibilità che l’Io dell’Autore Invisibile guadagni abusivamente il proscenio. Ma è una figura in particolare a permettergli di evitare lo scivolamento in una Romantik der Übersetzung.

Il dottor Watson di Conan Doyle, spesso ingiustamente dileggiato dall’autore stesso, è visto come un perfetto emblema del traduttore; perché in realtà è un attore secondario ma indispensabile affinché le imprese di Sherlock Holmes, il geniale auctor che affianca, trovino le parole per essere raccontate. Per quanto possa non essere «luminoso di per sé», Watson è tuttavia un ottimo «conduttore di luce»; lontano da ogni idealizzazione del mestiere, è un sommesso accenno alla normalità del traduttore, alla sua disponibilità all’esperienza e al dialogo, alla visione dell’alterità preservata nella linfa delle lingue continuamente in circolo, alla sua capacità di ascolto e servizio. Non si saprebbe immaginare metafora più significativa per questo mestiere inquieto e devoto.