In un seminario su crisi e composizione di classe organizzato al Cantiere di Milano lo scorso novembre dai progetti Effimera e Commonware, Christian Marazzi aveva ipotizzato l’intensificarsi di uno scenario di guerra diffusa, legato innanzitutto all’esplosione della bolla del petrolio e alla rivolta dell’Opec contro i nuovi produttori. I fatti di Parigi, pur con le loro forti specificità, possono forse essere inseriti in questo quadro.
La nuova intervista con Marazzi comincia dalla riconfigurazione di una geopolitica imperiale su cui spirano forti i venti di guerra. «Per ragionare su questo scenario di guerra diffusa ho preso spunto dal dimezzamento del prezzo del petrolio, conseguenza di una precisa scelta, in particolare dell’Arabia Saudita – spiega l’economista svizzero -. Viene forzato il prezzo non diminuendo la produzione, mettendo in difficoltà paesi come Iran, Nigeria e Venezuela che hanno bisogno di un prezzo superiore ai 100-120 dollari al barile. La decisione dell’Arabia Saudita, e quindi dell’Opec, ha effetti destabilizzanti per tutta la produzione del petrolio e del gas attraverso la tecnica della fratturazione».

Può offrirci ulteriori dettagli riguardo alle dinamiche dei conflitti in campo?

Dal punto di vista geopolitico, gira l’ipotesi di un asse tra Arabia Saudita e Stati Uniti per fare la festa alla Russia: non ci ho mai creduto. In primo luogo, il petrolio, a questo prezzo, mette in forte crisi le corporation nate sul fracking, che hanno bloccato tutti i piani di investimento e licenziano personale qualificato. L’Arabia Saudita mira a dominare nuovamente il mercato facendo saltare i competitor spuntati negli ultimi dieci anni e che hanno portato gli Stati Uniti all’autosufficienza petrolifera. In secondo luogo, grazie alle politiche di riavvicinamento con gli Stati Uniti, l’Iran può diventare un soggetto decisivo in Medio Oriente, cosa vista male dall’Arabia Saudita, figuriamoci dagli israeliani. Certo, l’operazione sta comportando seri problemi all’economia russa, con il crollo del rublo e il fallimento di banche. Penso però che sia un effetto collaterale, perché per gli americani non sarebbe una mossa intelligente. La svalutazione del rublo, infatti, è stata contenuta grazie agli interventi della banca popolare cinese e della banca centrale indiana: in una sorta di eterogenesi dei fini, si potrebbe così consolidare il polo Russia, Cina e India. Partendo da qui, ho parlato di uno scenario di forte tensione. L’Arabia Saudita sta dietro al terrorismo islamico, che è stato foraggiato anche dagli Stati Uniti. Non voglio dire che ci sia un rapporto di causa-effetto tra questa evoluzione geopolitica e i fatti di Parigi, che rimandano anche a logiche interne alla Francia. Sta di fatto che le cose vanno in tale direzione.

Possono quindi essere inquadrati nel contesto di guerra diffusa…

Esatto. Questa forma di terrorismo è figlia del degrado delle banlieue, penso in termini marxisti che ci sia un rapporto di causa-effetto tra la crisi endemica delle periferie metropolitane e i comportamenti di insubordinazione. Il fattore religioso è un bel problema, però mi sembra che rientri in questi ultimi anni di attacco da parte dell’Occidente: che uno degli attentatori di Parigi si sia convertito all’islam dopo aver visto le immagini di Abu Ghraib la dice lunga sul clima di guerra diffusa, inscritta nella crisi economica e finanziaria.

In questo quadro geopolitico, si inserisce la questione di un’eurozona in deflazione. Vi sono due recenti elementi da analizzare: da un lato le politiche monetarie di «quantitative easing» annunciate dalla Bce, dall’altro la vittoria di Syriza in Grecia. A inizio gennaio lo «Spiegel» sosteneva che la Germania potrebbe avallare un’uscita dall’euro della Grecia, in quanto non teme più l’effetto contagio. E se, oltre che strumento di pressione, facesse parte del processo di frammentazione dell’eurozona da te già ipotizzato?

La svolta monetaria del quantitative easing, prevista da tempo, ha sorpreso per la quantità di denaro. Credo che i 60 miliardi mensili siano il frutto di un compromesso tra Draghi e la Bundesbank; però, secondo i desiderata tedeschi, si attribuisce l’80% dei rischi alle banche centrali dei paesi membri. Se l’Italia o la Spagna dovessero fallire, le loro banche centrali dovrebbero assumersi l’80% dell’onere del default. Ciò prefigura uno scenario di frammentazione dell’Europa, nel senso che vengono meno le politiche di mutualizzazione dei rischi dell’unione bancaria. Il quantitative easing europeo è perciò un tentativo piuttosto disperato di bloccare la spirale deflazionistica e di uscire da una recessione che si sta protraendo da troppo tempo per la stessa Germania. I mercati non hanno reagito in termini straordinari: sono diminuiti i rendimenti dei bund, mentre negli Stati Uniti è accaduto quasi sempre il contrario quando c’è stata un’ingente iniezione di liquidità.

Su questo sfondo i comportamenti verso la Grecia di Germania e Francia, o di Juncker, sono una forma di terrorismo. L’aver insinuato che un’uscita della Grecia potrebbe non avere conseguenze negative la dice lunga sulla determinazione della Troika e non solo di agire pesantemente sulla vittoria di Syriza. Picchieranno duro, anche se nelle dichiarazioni di Tsipras c’è una disponibilità a negoziare – dimezzamento del debito, di rilancio di politiche di welfare, di investimenti pubblici. Le posizioni di Syriza sono quelle di una socialdemocrazia avanzata, vogliono ridurre il peso del debito sovrano e ridare un po’ di ossigeno al paese, all’economia e alla società, per uscire da una situazione di catastrofe umana.

Del resto, molti economisti non particolarmente radicali hanno espresso sostegno al programma di Syriza…

Sullo stesso Financial Times si sostiene che partiti come Syriza e Podemos sono la speranza per l’Europa e per l’euro. La vittoria di Syriza avrà probabilmente effetti di svalutazione dell’euro: anche in questa prospettiva, insieme al quantitative easing (finalizzato a un indebolimento dell’euro per favorire una ripresa delle esportazioni), la banca nazionale svizzera ha abbandonato la parità tra euro e franco.
Anche per l’entità, questa politica monetaria in versione europea – già praticata negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone – dimostra che siamo in una situazione di crisi molto più grave di quella che ci viene raccontata. Altrimenti non si capirebbe come ci si sia potuti mettere d’accordo sui 60 miliardi mensili. Però, le politiche monetarie non convenzionali come il quantitative easing danno poco contributo alla crescita del Pil, negli Stati Uniti si calcola che sia dello 0,26%.

Nel terzo trimestre del 2014 si è registrato un aumento del 5% del Pil americano: è una ripresa strutturale o drogata?

L’economia americana cresce normalmente più di quella europea, per questioni demografiche, per il contributo dell’immigrazione e per il debito pubblico più grande del mondo (il 106% del Pil). C’è stato un forte aumento del debito degli studenti ed è tornato l’indebitamento ipotecario. È dunque il keynesismo finanziario che ha permesso la crescita. Non c’è stato l’abbattimento della spesa pubblica auspicato dalla destra, ma nemmeno un miglioramento delle prestazioni sociali.

Inoltre, è diminuita sì la disoccupazione, ma perché è diminuita la partecipazione della forza lavoro al mercato. C’è quindi crescita di una povertà relativa e assoluta, l’aumento delle diseguaglianze è l’altra faccia di quella che Obama ha chiamato uscita dalla crisi. Le politiche di quantitative easing rafforzano le attività di tipo finanziario e borsistico, però tale ricchezza non sgocciola nella società. Questa liquidità alimenta un circolo virtuoso sul piano finanziario che però non si collega alla cosiddetta economia reale.

Potrebbe essere questo l’effetto in Europa delle politiche annunciate dalla Bce?

Penso di sì. Da una parte, politiche di quantitative easing sono meglio del monetarismo alla tedesca degli ultimi anni. Dall’altra, però, sono estremamente scettico sulla possibilità di uscire dalla crisi con queste politiche: vedo il rischio di un forte aumento delle diseguaglianze, che già sono a livelli stratosferici. Il quantitative easing è anche un tentativo politico di contenere la crescita dell’estrema destra, che cavalca il disagio con una posizione di rottura di tutto ciò che è Europa. La spaccatura dell’euro è stata in un certo momento addirittura probabile, poi alla fine del 2011 Draghi ha deciso di dettare i famosi mille miliardi. Siamo stati di nuovo in una situazione simile, si è perciò deciso per una svolta di grande portata. Certo è che se non si applicano delle politiche di redistribuzione del reddito e non si rilancia un welfare post-liberista, la destra è destinata ad avanzare. Per questo considero la Grecia il paese da cui può rinascere un’ipotesi di Europa diversa, dovremo quindi prepararci a sostenere questa svolta, approfondendo la rottura della fatale e diabolica politica di stabilità.

In uno scenario in cui i conflitti possono assumere direzioni molto differenti, lei ha più volte parlato del nodo dell’organizzazione, e dello scenario bellico come occasione per pratiche transnazionali…

L’islamismo estremo ci interpella sulle questioni del welfare, della povertà, della periferia. Non dimentichiamo che l’Isis paga un reddito di cittadinanza di 400 dollari ai suoi affiliati. In termini materialistici ne vedo la potenza.

Molte organizzazioni islamiche hanno costruito la propria forza innanzitutto sulla questione del welfare.

È una lunga storia. Sta a noi individuare nel concreto, dove viviamo, queste forme di costruzione e pratica di un comune fatto di differenze molteplici. La crisi del welfare, voluta e programmata dalle politiche neoliberali e dell’austerità, deve essere colta come occasione per sperimentare processi di condivisione dal basso. Perché non riproporre dentro l’espansionismo monetario l’idea di una redistribuzione di questa ricchezza? Proviamo a trasformare il concetto stesso di liquidità in moneta del comune, a partire dal rilancio di criteri di uguaglianza. Non c’è uscita dalla crisi senza redistribuzione della ricchezza.

I fatti di Parigi segnalano anche un rischio concreto all’interno della composizione sociale, ovvero una spaccatura tra un ceto medio bianco che si ricompone attorno ai valori della République e le periferie che si ricompongono attorno a un conflitto che veste apparentemente i panni della religione. Se leggiamo le biografie di chi ha compiuto l’azione a «Charlie Hebdo» o di chi parte da Londra o Parigi per combattere con l’Isis, troviamo proletari, rapper e giovani impoveriti delle metropoli. Tutto ciò ci parla innanzitutto delle nostre mancanze e incapacità…

Lì la religione è un dispositivo di ricomposizione, ed è proprio un dispositivo di ricomposizione che noi dobbiamo reinventare. Le lotte inevitabilmente ci saranno in questa bolla di ipocrisia che i ceti politici dominanti continuano a gonfiare con la retorica dell’essere fuori dalla crisi. In queste lotte, spurie ed eterogenee, ci sarà una fortissima tensione sul piano della progettualità e delle forme di organizzazione. Sarà un percorso molto duro, che dobbiamo prevedere e affrontare con coraggio. Come si fa a trovare un linguaggio comune tra una molteplicità di soggetti che, pur avendo determinati bisogni, hanno referenti e percorsi biografici così frastagliati, tra chi è stato licenziato da un’impresa o da una fabbrica e chi è cresciuto di assistenza? Forse la nostra più grande sfida è coniugare odio e pace, o la pace come una forma di odio, che sia il terreno sul quale possiamo parlarci e pensare assieme, per quanto con immaginari, vissuti e ferite sul nostro corpo così diverse.

L’intervista integrale è stata pubblicata anche dai siti dei progetti Commonware  (www.commonware.org) e Effimera (quaderni.sanprecario.info/category/effimera/).

Il testo farà parte di un ebook in cui saranno raccolti i materiali del seminario sulla crisi che si è tenuto a Milano, lo scorso novembre