Il concetto di entropia è oggi piuttosto abusato, anche nella letteratura contemporanea che pare sempre più alla ricerca disperata di un qualche appiglio giustificativo in un tempo in cui il suo ruolo sociale e culturale sembra essersi ridotto a una nicchia di pochi e periferici lettori. Tuttavia è proprio di entropia che l’agile romanzo di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi (66thand2nd, pp. 186, euro 15) racconta, è la qualità narrativa («la qualità dell’aria» si sarebbe detto pochi anni fa) di come viene tradotta dall’autore a generare uno stupefacente disordine emotivo. Il romanzo da un lato è un ottimo connubio di oggetti culturali alla moda quanto urgenti nel dibattito contemporaneo, dall’altro assume su di sé il segno di una tradizione letteraria novecentesca portandola fino a noi. Un narrare che va da Cassola fino a Mario Rigoni Stern e il tutto senza mai cedere di un passo al terribile vizio della citazione. La custodia dei cieli profondi è un romanzo maturo e saldo dentro il suo tempo, capace di raccontare con estrema cura e seduzione la storia di un uomo isolato, abbandonato a se stesso e alle proprie disillusioni che tuttavia però è ancora capace di esercitare un bisogno di ordine inteso come bisogno di senso e non come superficiale organizzazione.

ESATTAMENTE l’opposto di quello che accade attorno a lui, ciò che sembra percorrere il fratello, Emanuele, che decide razionalmente di abbandonare la casa di famiglia – Cascina Odessa – fingendo a se stesso un’assenza di legami e di obblighi che, schiacciati e repressi, non potranno altro che esondare. Ed è proprio per impedire questa sorta di alluvione che, dal passato, schianta il presente; Gabriele, il protagonista, si ostina a curare Cascina Odessa, amandola disperatamente e trasformandola da simbolo di un trascorso famigliare a tenace presenza contemporanea di diversità. Un luogo presente a se stesso, prima ancora che agli altri, ormai opachi e confusi elementi di un paesaggio privo di terze dimensioni. Gabriele trasforma così il simbolico in un corpo vivo e, come tale, finalmente possibile di morte e disgregazione nello strenuo tentativo di impedirne e combatterne fine e deperimento.

UNA CONTRADDIZIONE che Raffaele Riba mette al centro di un romanzo sorprendente per la sua semplicità e per l’adamantina eleganza narrativa, una contraddizione che lavora seppur con fatica ancora all’interno dei nostri giorni sfidando la ragione presunta e la razionalità di superficie che opacizza buona parte dei discorsi biografici e culturali contemporanei.
La custodia dei cieli profondi è un libro che racconta del presente inteso nella sua assenza di futuro, ma anche della sua potenzialità che può farsi senso e significato accettando prima di ogni altra cosa l’insita temporaneità. L’infinito presente produttore continuo di rifiuti infatti non è altro che il colpevole principale di un passato lucido e artefatto e di un futuro mangiato e divorato da una pulizia continua che rifiuta – nel deterioramento – la vitalità dello scorrere. Gabriele lascia così che le cose accadano, certamente guidandole ma senza mai sopravvalutare la propria forza, felice anche di accettare la seduzione dell’inganno da lui stesso prodotto. Un romanzo godibile e raffinato al tempo stesso, un raro equilibrio che illumina il lettore passo per passo lungo le sue pagine. Un incanto capace, attraverso gli occhi di Gabriele, di mostrare il cielo stellato ed esplosivo come la terra stanca e convulsamente attraversata.