Una recente stima della diffusione delle patologie dell’alimentazione in età infantile indica approssimativamente in trecentomila il numero di bambini tra i sei e i dodici anni affetti da varie forme di disagio legato al cibo, principalmente (ma non solo) obesità e disturbi evitanti del cibo. Una cifra allarmante, ancor più se correlata all’impressionante numero di adolescenti che, secondo analisi epidemiologiche condotte in Italia, si aggirerebbe intorno ai tre milioni.

Questi sono i dati inquietanti di una vera epidemia psicopatologica che fanno da sfondo al libro di Laura Dalla Ragione e Paola Antonelli dal titolo Le mani in pasta (Il Pensiero Scientifico Editore, pp. 300, euro 20, prefazione di Marino Niola), un testo scritto – come recita il sottotitolo – per riconoscere il disturbo selettivo dell’alimentazione in infanzia e prima adolescenza. Un testo per operatori e famiglie, pensato come strumento d’aiuto utile a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, si trovano a dover fare i conti con un fenomeno clinico che assegna all’Italia il triste primato di nazione con il più alto numero di casi.

UN LIBRO IMPORTANTE, questo, anche perché contribuisce ad approfondire la conoscenza dei disturbi alimentari in età preadolescenziale, rendendo possibile la distinzione tra due grandi contenitori sintomatici: le patologie della prima/primissima infanzia e quelle dell’età prepuberale. Nel primo caso – spiegano le autrici – i disordini dell’alimentazione si instaurano principalmente a partire dal delicato passaggio all’alimentazione autonoma e vengono a segnalare una problematica precoce nella comunicazione tra il bambino (indifferentemente, maschietto o femminuccia) e le persone che provvedono al suo accudimento. Si tratta, soprattutto, di quei disturbi caratterizzati dal timore di soffocare, da iperfagie, dal rifiuto di determinati cibi e dalla scelta di altri in funzione di caratteristiche speciali (il colore, la forma, la consistenza, ecc.).

NEL SECONDO CASO – indicativamente, dagli otto-dieci anni in su – i disturbi alimentari sembrano segnalare, al contrario, la crescente (e preoccupante) tendenza delle più conosciute forme anoressico-bulimiche ad anticipare l’epoca della loro insorgenza. È così, allora – come evidenziano Dalla Ragione e Antonelli, commentando gli interessanti risultati di una ricerca compiuta su 167 bambini di alcune scuole elementari e medie inferiori umbre – che il fenomeno sintomatico conferma la sua prevalenza nel gruppo delle bambine e la sua associazione a pensieri riguardanti la bellezza, la forma sottile del corpo, l’attenzione alla «leggerezza» dei cibi e tutti i temi tipici della problematica anoressico-bulimica adolescenziale e giovanile.

Già in bambine di terza/quarta elementare, infatti, la fascinazione per il corpo disincarnato sembra rappresentare un ideale consolidato al quale sacrificare le proprie abitudini alimentari o, a seguito del frequente fallimento di tale aspirazione, l’irrinunciabilità del cibo (che spinge alle devastanti pratiche di abbuffata-vomito) appare come l’illusoria consolazione autoerotica nella quale trovare un momentaneo rifugio all’insoddisfazione. Due forme – parimenti rovinose – di misurarsi con la questione della femminilità, tanto quella che – considerata l’età – è sul punto di sbocciare all’interno del proprio corpo (mettendo in discussione la stabilità psichica e relazionale che aveva tenuto in equilibrio l’età infantile), tanto quella – spesso negata, rimossa o incomprensibile – della propria madre.

PARLARE DI DISTURBI dell’alimentazione dell’infanzia significa, pertanto, distinguere due logiche sintomatiche differenti, discriminabili anche sul piano della loro incidenza di genere: a differenza delle patologie della prima/primissima infanzia, l’insorgenza di forme anoressico-bulimiche è preponderante nelle bambine (già a partire, come detto, dagli otto-dieci anni) e indica la potenza delle due grandi tematiche che ogni bambina è chiamata ad affrontare alle soglie del proprio sviluppo sessuale: il confronto con la donna che è stata ed è sua madre e il confronto con le altre donne (ovvero, con l’ideale di donna che il contesto socioculturale promuove). Le patologie dell’alimentazione, dall’età prepuberale in poi, si incrociano inevitabilmente con la questione della femminilità. Questo è un dato che non si può ignorare: non si comprende il comportamento anoressico-bulimico senza tener conto di come, per ogni bambina, si ponga il problema di individuarsi come donna e di come, in questo compito, ella si trovi sprovvista di un riferimento simbolico certo.

IL RICORSO allo stereotipo sociale – che impone l’immagine di una donna alleggerita dalla forme ingombranti di una sessualità che non si saprebbe come soggettivare – rappresenta la soluzione «a portata di mano», alla quale sempre più le bambine ricorrono. In questo modo, la dimensione «melanconica» della donna – che, come afferma Sarantis Thanopulos nel suo ultimo acuto lavoro editoriale La solitudine della donna (Quodlibet, pp. 144, euro 12, postfazione di Annarosa Buttarelli), dipende dalla necessità di entrare in rapporto con la vita «a partire dalla loro interiorità, guardando da dentro fuori» – viene apparentemente cancellata dall’euforia maniacale del corpo magro (che si soddisfa nel rifiuto) o del godimento illimitato dell’abbuffata. È così allora, che il faticoso compito di trovare un modo di fare i conti con «la profondità dell’interiorità erotica femminile» – tratto peculiare della donna che l’autore descrive con grande sensibilità – viene risolto dal pensiero ossessivo del cibo: la solitudine della donna – espressione, afferma sempre Thanopulos, della «sua presenza silenziosamente eversiva per le istanze ordinatrici della civiltà – si degrada, così, in isolamento sintomatico, in rifiuto difensivo della dinamica dello scambio ed in un ritiro centrato sull’appagamento assicurato dall’adesione ad un ideale di perfezione estetica.

LA BAMBINA che – come notano Dalla Ragione e Antonelli – vive imprigionata nella coazione della dieta (desiderata o praticata, poco importa) tenta di superare, attraverso di essa, la difficoltà di fare i conti con una dimensione che non sa padroneggiare, con il suo imminente «divenir donna», con quella solitudine che – scrive Francesco Stoppa nel suo illuminante libro La costola perduta (Vita e Pensiero, pp. 200, euro 16) – è «il partner primo della donna».

LA MANCANZA che abita il suo corpo – che, aggiunge Stoppa, «si declina in una dimensione di irriducibile singolarità, nell’una per una che contraddistingue la posizione femminile» – si trasforma, così, in vuoto da riempire con l’abbuffata o da adorare feticisticamente nel rito nichilista del digiuno patologico. La bambina, all’esordio dei suoi disordini alimentari, allontana da se il faticoso compito di costruirsi la propria risposta all’enigma della femminilità (propria e della madre). Il pervertimento della funzione elementare (ma non naturale) che è il nutrirsi ne segnala l’effetto di radicale disturbo: di questo disturbo (e della sua comprensione profonda), ogni cura psicoterapica e ‘riabilitativa’ non potrà non tener conto.