Contagiati, chi più chi meno, dall’euforia per le imprese di «Azzurra», la barca a vela protagonista delle regate di Coppa America nelle acque di Newport (costa atlantica degli Usa, anni ’80), ci si era riscoperti in quel popolo di navigatori da cui discendiamo e il termine inglese «skipper», estraneo fino a qualche anno prima, circolava familiarmente sulla bocca di tutti. Allo skipper, che s’ingaggia in porto, l’armatore affida la propria imbarcazione; alla cui manovra sovrintende il timoniere. Di fatto, è lo stesso skipper a occuparsi della navigazione. Spetta a questi qualsiasi decisione a bordo, anche la scelta dei componenti l’equipaggio. Ed è così che ci trovammo imbarcati, sebbene privi di esperienza da condividere con la gente di mare. Ma con lo skipper si andava insieme già da piccoli, all’asilo delle suore benedettine. Al telefono accennò di un trasferimento da un porto all’altro con un cabinato di 13 metri e la cambusa ben fornita, a spese dell’armatore. Gimmy (non poteva farsi chiamare altrimenti uno skipper di nome Gioacchino) ci aspettava col marinaio sulla barca ormeggiata nella darsena di Viareggio. Peccato lasciar cadere qualche giorno di svago in mare, e mollati famiglia e lavoro raggiungemmo in treno la Versilia. Ce lo disse subito, in stazione, che avremmo affrontato una traversata: non gli era ancora capitato di navigare per 680 miglia nautiche tutte in una volta. E quanto sarebbero 680 miglia nautiche? La distanza che intercorre fra i porti di Viareggio e di Otranto, la meta da raggiungere. La prospettiva, che sembrava ambiziosa, c’impensierì alquanto dopo aver realizzato che dall’alto Tirreno fino all’imbocco dell’Adriatico si dovesse stare sempre in mare. Che andassimo a ficcarci in un mare di guai? Il dubbio non si scioglieva, nemmeno sapendo di una traversata inframmezzata di tappe, per rifornimento di carburante, nei porti che avremmo incontrato costeggiando lo stivale. A bordo si stava in quattro e al mattino seguente, di quei primi di settembre, salpammo facendo rotta verso sud. La tabella di navigazione prevedeva come prima tappa il porto di Civitavecchia: si cominciava con una tirata per niente male. Dalla darsena s’intravedeva la massa d’acqua increspata e appena usciti, infatti, incontrammo mare grosso. Gimmy e il marinaio non ne risentivano minimamente: rollii e beccheggi della barca erano dondolio di culla, per loro; sottili tormenti, per noi. Altro che Civitavecchia, e manco a Piombino saremmo arrivati! Dopo sole 24 miglia riparammo sollecitamente a Livorno, i cui moli che proteggono il grande porto ci parvero materne braccia protese ad alleviare il nauseante mal di mare. Che ignoravamo di soffrirne, non avendo mai navigato prima. Impossibilitati a continuare ci separammo: i naviganti di mestiere ripresero il mare, noi altri tornammo a Viareggio col treno. C’era da recuperare la vecchia Golf di Gimmy, con cui saremmo scesi a Otranto a portargliela. Dove giunsero un mese dopo. Col motore spremuto, funzionante a singhiozzo, non riuscivano a varcare lo Stretto per le forti correnti contrarie. Una volta sbucati nel mare aperto dello Jonio rischiarono di andare alla deriva. Ma comparve il capo di Leuca e doppiatolo finì l’avventura.