Dopo la Brexit, è sempre più evidente che l’Europa sta pagando i prezzi della globalizzazione, cioè dell’adesione a un paradigma che ha azzerato gli argini al capitalismo finanziario (ad esempio, facendo saltare ogni intercapedine protettiva tra risparmio e speculazione, economia reale e finanza tossica) e puntato tutto sulla creazione di un esercito proletario di riserva globale. A dispetto della narrazione sui presunti effetti liberatori dell’empowerment individualistico, la sostanza concreta è uno stato di natura creato dall’alto, ovvero la guerra di tutti contro tutti tra subalterni. Nell’illusione di gestirla attraverso una separazione definitiva tra “alto” (inafferabile perché sradicato) e “basso” (depotenziato perché schiacciato sui territori): uno schema che ambiva a una completa immunizzazione del capitale e delle tecnocrazie al suo servizio.

Ci sarebbe l’ostacolo della democrazia, che in tempi difficili non è così agevolmente domabile (nonostante il potere del denaro e l’asservimento mediatico al discorso dominante). Ecco emergere, allora, un fronte antioligarchico, ambivalente quanto si vuole, ma che esprime un’effettiva energia politica “popolare”. È bene essere chiari rispetto a quanto sta succedendo: non si tratta né di una sfortunata congiuntura (come se il fallimento dell’Europa fosse una calamità naturale), né di un destino cinico e baro (non ci avete capito, siete ignoranti, ve ne pentirete): il nodo è strutturale e la responsabilità complessiva, tanto economica quanto istituzionale e politica. L’establishment dell’Unione, e le classi dirigenti nazionali, hanno scelto di sacrificare il modello sociale europeo e di consegnarsi allo strapotere della finanza: per furore fideista travestito da necessità tecnica, convenienze nazionali (dei Paesi più forti), calcoli di piccolo cabotaggio (ad esempio del governo italiano), rifiuto di dire la verità sulle contraddizioni strutturali dell’euro, hanno «comprato tempo» (cfr. W.Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli 2013) confidando nel metadone (il quantitive easing) di Draghi. Ma nel momento in cui l’Europa si è messa integralmente al servizio del culto ordoliberale, accantonando gli obblighi di solidarietà proclamati nella Carta dei diritti (tranne che, paradossalmente, per i ricchi tedeschi esportatori e i grandi creditori), si è condannata per forza di cose al ripudio da parte dei popoli europei.

È surreale, ma estremamente significativo, che ciò sia accaduto di fronte alla più grande crisi economica e sociale dopo il 1929: la memoria evidentemente non insegna più nulla, se non è sostenuta da soggettività politiche critiche e da una sfida antagonistica (come fu quella dell’eresia bolscevica) che la tengano viva. È come se la gestione della crisi e i suoi effetti avessero avuto un effetto di disvelamento sulla reale natura dell’Europa di Maastricht, edificata sulle macerie del Muro. Se l’Europa, e in particolare l’area euro, si fosse incamminata, di fronte alla crisi, sulla strada di un’unione politica della solidarietà, la situazione attuale sarebbe molto diversa, perché avremmo non squilibri crescenti ma coesione (tra gli Stati e al loro interno), e ciò consentirebbe di affrontare con ben altre risorse materiali e simboliche la sfida complicata della costruzione di un’effettiva sfera pubblica europea e di un’integrazione paritaria. Ma questa strada avrebbe implicato una decisione politica esplicita e consapevole della sua natura costituente, che accettando il rischio di coinvolgere i popoli europei, ponesse fine a quell’aggiramento dei nodi del politico che in tanti hanno coltivato in questi anni.

La cruda realtà invece è che oggi siamo di fronte a un dispositivo di governo che tutela i forti e penalizza i deboli. Perciò è l’Europa stessa la prima fonte di divisione.

Del resto, che fossimo di fronte al rischio di una saldatura tra questione sociale e questione identitaria era evidente. Ma nulla è stato fatto per favorire un recupero di sovranità democratica e solidarietà sociale. Al contrario, governi tecnici e larghe intese sono serviti a blindare le fallimentari ricette antisociali dell’Ue, adottate in nome dell’emergenza, frutto dei dogmi stessi sulla quale l’Europa attuale è costruita. Sulla sfondo, il monito della lezione impartita ai greci riottosi, che avevano osato ribellarsi esercitando la loro libertà politica e il diritto a decidere di se stessi. È notevole come la presunta neutralità tecnocratica viva di pregiudizi moralistico-antropologici: i greci irragionevoli, gli italiani scansafatiche, in generale i ceti popolari ignoranti e privi di lungimiranza. In realtà, sono le reazioni isteriche alla Brexit a rivelare grande superficialità: nessuna analisi seria, autocritica, un profluvio di moralismo propagandistico unito a umori violentemente antipopolari.

Le presunte nuove fratture, come quella generazionale, o fra istruiti e non, sono coperture fuorvianti, diversivi che mantengono il dibattito sulla superficie. Servono a compiacere e rassicurare i vincenti della globalizzazione (o quelli che ancora stanno a galla), attraverso una strategia di squalificazione morale degli esclusi, confermando l’auto-narrazione neoliberale. Ma le questioni profonde, strutturali, sono sociali, indotte dalle dinamiche del capitalismo globale e dell’Europa ordoliberale: impoverimento della working class, disoccupazione, decadimento delle infrastrutture pubbliche, tagli al Welfare. Il punto è che tali contraddizioni non sfociano in un conflitto economico-sociale esplicito, aperto, né trovano una coerente rappresentanza, e perciò si traducono in dicotomie (come quelle connesse all’immigrazione) che occultano o distorcono la loro concreta matrice.

Il vero tema, per il rilancio di una politica effettivamente di sinistra, e per una riflessione all’altezza di questo compito, è come recuperare a una dialettica democratica reale questo nucleo di classe. Si tratta di indagarlo nella concretezza delle forme in cui si manifesta, senza fare troppo gli schizzinosi, e a partire da qui riorientarlo verso i bersagli giusti, come ci invita a fare Zizek nel suo ultimo libro (La nuova lotta di classe, Ponte alla Grazie 2016), che smonta un bel po’ di luoghi comuni perbenisti della sinistra. Il primo rischio da evitare è quello del cordone sanitario rispetto ai «barbari»: ci porterebbe tutti sotto l’ombrello della Bce. Come aveva ben capito Gramsci, il pericolo per gli «intellettuali» è sempre quello di parlare di se stessi, scambiando il proprio punto di vista particolare, le proprie esigenze di ceto, con la realtà. Anche per questo in tanti, oggi, sono spiazzati da una realtà popolare» che non conoscono né comprendono.

Mentre i sintomi di una sindrome weimariana su scala europea si manifestano, le cosiddette élites, di cui ormai è parte integrante ciò che resta del socialismo europeo (che infatti è boccheggiante), continuano a vivere in un mondo rovesciato, in una bolla: non a caso credono (o fingono di credere) in cose che non esistono (l’Unione come democrazia sovranazionale, l’austerità espansiva, le magnifiche sorti e progressive del TTIP). Tutto per non ammettere che stanno solo difendendo il «sistema» (il capitalismo finanziario: la democrazia e la dignità delle persone non c’entrano nulla) e che le terapie velenose che hanno imposto hanno solo peggiorato la situazione. I fallimenti sembrano renderle ancora più cieche e livide, quindi pericolose. Tutto lascia prevedere che se non si attivano energie di sinistra in grado di riprendere contatto con la realtà sociale dei ceti popolari, l’uscita dal fallimento europeo sarà da destra. Il rischio è con l’Europa siano travolte anche le democrazie costituzionali.