Il cellulare che squilla a vuoto, generando ansia in chi sta cercando un contatto, i mozziconi puzzolenti delle sigarette che tracimano dal posacenere, gli asciugamani bagnati appallottolati per terra e felpe ovunque, tutte rigorosamente al rovescio e prese da cassetti che poi rimangono sconsolatamente aperti. Prima, quelle stesse felpe si trovavano ammucchiate in negozi venerati da orde di adolescenti, dove – una volta sopravvissuti alle file disumane – si entra e si procede a tentoni nel buio, si respira un profumo dolciastro che dà il voltastomaco e si deve sorridere a corpi bellissimi che non sanno cosa fare, se non mostrarsi al pubblico.
Sono tracce conosciute e riconoscibili per chiunque, l’identikit universale di un adolescente che gira per casa. Anche il divano con la forma del corpo abbarbicato fa parte di quella semina di indizi. Sicuramente, prima di essere deprivato della presenza umana, quel divano ha sostenuto il peso di un ragazzo/a stravaccato, connesso con almeno tre dispositivi: gli occhi bassi, la mano che digita, cuffiette alle orecchie e la tv accesa. Quando va bene, tenuto in bilico con due dita, quasi un’apparizione casuale, c’è anche un libro per studiare in mezzo al luccicare delle varie icone elettroniche. È la concentrazione tipica del figlio «X» diciottenne, italiano ma con un che di planetario che trattiene nel suo nuovo dna.
Davanti a lui, invisibile, sulla soglia della porta, c’è un padre sconcertato che lo guarda, si interroga e cerca di capire quel che non potrà comprendere, perché ormai è adulto e non è più in grado di ritrovare in sé i segni dell’adolescenza. Ha perso la partita con il «perfezionista della negligenza», ha nostalgia del bambino «che era così facile da amare» e deve fare i conti con lo spiacevole sospetto che gli antenati fossero più attrezzati nell’arte della resistenza.
Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli, pp.108, euro 12), nel suo andamento circolare, riassume la vita di due generazioni che si fronteggiano, con frasi compiute (i tentativi raziocinanti del padre) e monosillabi (la difesa del figlio e dei suoi amici), sostanzialmente in un’emozione antica: lo stupore. Così, quel refrain che cerca di tessere una tela di ragno affettiva, pure con la disperazione e il ricatto – «vieni a Colle della Nasca, ti fa bene» – diventa alla fine evento salvifico. La montagna che il figlio disdegna, dove bisogna camminare nonostante le scarpe improbabili e i pantaloni a braghe larghe, si trasforma nel testimone muto e grandioso del passaggio di consegne fra due età della vita. In mezzo, scorre l’abbozzo di un romanzo strampalato in cui i vecchi vanno alla morte in battaglia, in un atto di eroismo che prevede anche la sospensione delle centinaia di pillole che ingurgitano per conservare i piedi ben radicati a questa terra.