Raqqa e Mosul non sono mai state così vicine negli ultimi anni. Le due battaglie campali contro lo Stato Islamico sono divenute ben presto terreno di confronto ben più ampio, che coinvolge interessi strategici regionali e globali.

La “capitale” dell’Isis è ormai accerchiata: ieri le Forze democratiche siriane (Sdf), federazione guidata dai kurdi di Rojava e composta da arabi, circassi e turkmeni, hanno annunciato di essersi portate all’ingresso nord di Raqqa, a soli tre km dal centro, e di essere pronte a lanciare l’offensiva finale nelle prossime settimane.

La città è circondata dai combattenti delle Sdf a nord, est e ovest. A sud, a chiudere la fuga agli islamisti,c’è il fiume Eufrate.

Sostiene l’avanzata la coalizione anti-Isis, con gli Usa che a inizio maggio hanno approvato l’invio di armi pesanti ai combattenti kurdi, facendo infuriare l’alleato turco (Washington avrebbe mandato, secondo la stampa turca, cento camion di armi anticarro, Mk19, M16, veicoli Humvee e fucili d’assalto, transitati dal Kurdistan iracheno).

Ma non ci sono solo i kurdi nella testa del Pentagono: secondo alcuni leader dell’Esercito Libero Siriano, formazione anti-Assad da subito posta sotto l’ala occidentale, l’amministrazione Trump starebbe inviando da settimane armamenti a favore delle opposizioni verso una base al confine con l’Iraq.

Con un obiettivo ben preciso: impedire alle milizie sciite irachene, le Unità di Mobilitazione Popolare impegnate a ovest di Mosul, di varcare il confine e “riunirsi”ai miliziani sciiti che sostengono militarmente il governo di Damasco.

Armi in chiave anti-Iran, dunque, che collegano con un filo rosso Raqqa a Mosul. Nella città siriana l’obiettivo di Trump è incassare una vittoria militare strategica dal punto di vista simbolico che riporti Washington al tavolo della crisi da cui è stato scalzato da Astana (e dai tre sponsor del dialogo, Russia, Turchia e Iran).

Sull’altro lato della labile frontiera, nella seconda città irachena per importanza, lo scopo è impedire a milizie armate e addestrate da Teheran di legare la guerra all’Isis a quella a favore di Damasco.

Per farlo Trump è disposto a riesumare un programma fallimentare, quello imbastito dalla Cia negli anni scorsi e passato per la creazione di centri di addestramento tra Turchia e Giordania. Di “ribelli” ne vennero addestrati molto pochi, per stessa ammissione Usa: 4 o 5 miliziani, disse nell’autunno 2015 il generale Austin, capo del comando centrale Usa in Medio Oriente, davanti al Congresso.

Ma di denaro ne fu speso parecchio (mezzo miliardo di dollari solo in training), milioni in armi in molti casi finite nelle mani di gruppi islamisti alleati estemporanei di quelli considerati moderati.

Il viaggio di Trump tra Arabia Saudita e Israele di dieci giorni fa ha definito la politica mediorientale della nuova Casa bianca: limitare l’influenza iraniana. Non potendolo fare stracciando l’accordo sul nucleare civile siglato dal predecessore Obama, Trump riarma il fronte avverso: 110 miliardi di dollari in armi a Riyadh, sotto forma di contratti di vendita con aziende americane e, di nuovo, equipaggiamento a quelle opposizioni quasi scomparse dal campo di battaglia, fagocitate da gruppi salafiti e qaedisti più organizzati e potenti.

Ieri la coalizione internazionale anti-Isis ha chiesto a Damasco di ritirare le milizie alleate, trasferite nelle ultime settimane alla frontiera con l’Iraq e la Giordania: ha lanciato 90mila volantini sull’area, ma al momento nessun miliziano si è allontanato.

Quelle stesse milizie il 18 maggio hanno ricevuto un avvertimento aereo con il raid Usa a Badia, dove si troverebbero al momento 3mila uomini di Hezbollah.

Dall’altra parte stanno gli sciiti iracheni che stanno ripulendo dalla presenza Isis la zona occidentale di Mosul. Villaggio per villaggio, liberano comunità dal giogo islamista, ma si avvicinano anche al confine, per gli Usa nuova linea rossa da imporre a Teheran.