La tegola caduta ieri sull’amministrazione Obama non ci voleva proprio, a due giorni dall’incontro tra il presidente Usa e il russo Putin. La strategia statunitense in Siria è di nuovo trascinata nel fango: dopo le dichiarazioni della Cia («le opposizioni moderate sono controproducenti»), dopo l’ammissione del generale Lloyd Austin, responsabile del Comando centrale dell’esercito («Solo 4 o 5 ribelli da noi addestrati sono operativi in Siria»), ora la Casa Bianca sventola l’ennesima bandiera bianca.

Ribelli formati e armati dagli Stati uniti hanno ceduto sei pick-up, munizioni e armi ad un gruppo satellite del Fronte al-Nusra (nella foto) in cambio della vita. Fermati dai qaedisti, per evitare la fine dei loro predecessori, uccisi o fatti prigionieri, hanno trovato un accordo: vi lasciamo le armi, un quarto di quelle a disposizione, ma lasciateci passare.

Ad ammetterlo è stato lo stesso Comando centrale Usa: «La cessione di armi ad al-Nusra è una violazione delle linee guida del programma di addestramento e armamento». Un programma da 500 milioni di dollari, che avrebbe dovuto preparare 5mila ribelli l’anno per tre anni. Non solo i ribelli non ci sono, ma quelli che ci sono non sembrano aver voglia di combattere i gruppi islamisti che controllano un terzo di Siria.

Vengono così confermate le voci di qualche giorno fa, secondo cui un comandante ribelle sarebbe fuggito dalla Divisione 30 portandosi dietro il bottino. Entrato in Siria dalla Turchia lunedì con 70 combattenti, Anas Ibrahim Abu Zayed avrebbe consegnato gli equipaggiamenti militari ai qaedisti per poi darsi alla macchia. Un miliziano non certo dal curriculum immacolato: era parte del gruppo Harakat Hazm, costruito a tavolino dalla Cia che a marzo annunciò la sua dissoluzione dopo le sconfitte rimediate a Idlib, oggi roccaforte qaedista.

Nonostante su Twitter al-Nusra avesse pubblicato foto di miliziani che imbacciavano fucili di fabbricazione Usa, lì per lì Washington aveva smentito: le armi sono ancora in mano all’unità delle Nuove Forze Siriane, avevano detto gli statunitensi. Ieri il Pentagono ha capitolato. Che sia stato Abu Zayef (che su Facebook ha scritto di aver lasciato il programma Usa per combattere al di fuori della coalizione) o gli stessi ribelli ad arrendersi senza provare nemmeno a combattere, resta la figuraccia di aver messo in piedi un programma inutile, se non controproducente, costosissimo e già moribondo.

Ultima goccia a far traboccare il vaso è stata la chiusura – decisa da Washington e Amman – dell’operazione “Tempesta del sud”, organizzata dal Centro per le Operazioni Militari della coalizione, di stanza in Giordania, e volta alla riconquista della città di Deraa, in mano ad Assad. L’evanescente Esercito Libero Siriano avrebbe dovuto portare avanti la controffensiva, sostenuto finanziariamente e militarmente dagli alleati. Missione cancellata: in tre mesi nessun risultato archiviato.

Così, mentre la Russia manda armi, aerei e consiglieri militari e l’Iran gestisce – come spiegavamo ieri su queste pagine – 150mila miliziani sciiti, un imbarazzato Obama rincorre. E scende a compromessi: dopo aver accettato di incontrare il presidente russo Putin, l’amministrazione Obama apre a Teheran. Ieri il segretario di Stato Kerry ha visto il ministro degli Esteri iraniano Zarif, a margine dell’Assemblea Onu: «Questa settimana è una grande opportunità per molti paesi di giocare un ruolo nella soluzione di molte questioni mediorientali, faremo progressi», ha detto Kerry mentre incontrava Zarif.

L’obiettivo è lanciare una nuova iniziativa diplomatica che risolva politicamente la crisi siriana, attraverso il fondamentale dialogo con chi la guerra la combatte in prima linea. Ovvero l’Iran, da tempo intenzionato a far partire un dialogo ampio sulla questione. Teheran si ritroverebbe a discutere con gli avversari regionali – Golfo e Turchia – da una posizione privilegiata: primo sostenitore del presidente Assad, insieme alla Russia potrà imporre la pre-condizione sempre rigettata da asse sunnita e Usa, la partecipazione attiva di Assad nella transizione politica. E così sarà: nessuno è in grado di impedirlo. Non lo è l’Europa, scossa dal torpore dall’emergenza rifugiati, non lo sono gli Usa, travolti dagli scandali. Non lo è la Turchia che non riceverà da Mosca il sostegno necessario alla tanto agognata zona cuscinetto e non lo è il Golfo, concentrato sullo Yemen e principale responsabile della repentina crescita dei gruppi jihadisti che minacciano l’intera area.