Due eventi, negli anni Cinquanta del secolo scorso, hanno segnato il dibattito tra le «due culture»: l’incontro del 1956, al College di Dartmouth (New Hampshire) tra i quattro «magnifici padri» dell’Intelligenza Artificiale (John McCarthy, Marvin Minsky, Nathaniel Rochester e Claude Shannon) e la recensione che Noam Chomsky scrisse nel 1959 al libro Verbal Behavior, dello psicologo comportamentista Burrhus Skinner.

Da allora, con sviluppi ormai sterminati, una parte considerevole della cultura contemporanea si è impegnata a discutere cosa mai sia la mente, come funzioni, se mai possa darsi che la mente sia riproducibile, realizzabile o simulabile mediante dispositivi artificiali. Più avanti, tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, il cognitivismo ha cercato sponde nelle neuroscienze cognitive e nella psicologia evoluzionista, col presupposto che la struttura e le funzioni della mente siano il risultato della organizzazione neurale del cervello, e che quest’ultima sia il risultato di sollecitazioni adattative.
Altri sviluppi – relativi ai vincoli imposti dal possesso di un corpo e dalla collocazione in un ambiente, oppure a quelli legati allo sviluppo umano e alla cognizione sociale – hanno progressivamente indebolito quella contrapposizione iniziale tra natura e cultura, o tra scienza e umanesimo, che aveva contraddistinto la «rivoluzione cognitivista» della seconda metà del Novecento.

Dogmi fasulli
Malgrado le revisioni, le ammissioni e i ripensamenti, l’orientamento cognitivista continua a stimolare robuste resistenze. Tra i suoi critici, si iscrive ora Siri Hustvedt, influente scrittrice statunitense, narratrice, poetessa e saggista; già nota ai lettori italiani per cinque romanzi e per una autobiografia di successo: La donna che trema. Breve storia del mio sistema nervoso. Per la verità, oltre ad occuparsi di arte, di letteratura, di filosofia e di comunicazione, Siri Hustvedt ha pubblicato articoli che riguardano la memoria, l’immaginazione e la mente, su riviste qualificate come Neurophysiologie Clinique, Contemporary Psychoanalysis, Neuropsychoanalysis e Seizure: the European Journal of Epilepsy. E la stessa Hustvedt fa parte di una cerchia intellettuale importante, negli Stati Uniti e oltre; fa in fondo anche parte – come lei stessa sembra ammettere ironicamente nel suo ultimo saggio, Le illusioni della certezza (Einaudi, pp. 284 pagine, euro  21,00) – di quel gruppo di «snob intellettuali che gli americani adorano odiare: marxisti, femministe radicali, postmodernisti o semplici vecchi intellettuali».
Il riferimento, in questo richiamo ai radical chic di Tom Wolfe, non è soltanto a quello che pensa l’americano medio, anti-establishment e sostenitore di Trump; la polemica di Hustvedt, quanto alle «certezze» che molti di noi credono di avere sulla mente, investe studiosi di Harvard (come Steven Pinker), di Oxford (Richard Dawkins), della Tufts University (Daniel Dennett), dell’Università di California Santa Barbara (Leda Cosmides e John Tooby), fino a investire l’ardita «congettura di Church-Turing» (se un problema è umanamente calcolabile, allora esiste un computer in grado di risolverlo), insieme al «dogma centrale» di Watson e Crick (l’informazione genetica è sempre monodirezionale: il codice genetico determina la struttura delle proteine e non è mai possibile un flusso di informazioni inverso).

Una linea di continuità, a prima vista, si potrebbe rintracciare tra le posizioni di Siri Hustvedt e il cosiddetto «modello standard delle scienze sociali» (attribuito da Pinker agli antropologi Franz Boas e Margaret Mead, al comportamentista Burrhus Skinner, agli evoluzionisti Richard Lewontin e Stephen Jay Gould): l’idea che la mente sia un sistema cognitivo polifunzionale, le cui caratteristiche sono determinate in maniera cruciale dallo sviluppo individuale e dalla cultura. Ma Hustvedt è sufficientemente informata, per essere ricondotta a questo presunto modello. E la sua ricerca – che assume la forma di un lungo racconto, di un itinerario intellettuale nelle discipline della mente – non si ferma a crogiolarsi nelle principali obiezioni filosofiche che sono state rivolte a suo tempo al cognitivismo, come quelle avanzate a partire dagli anni Settanta da Hubert Dreyfus e da John Searle: la mente non è un computer (pensare non equivale a calcolare) e l’esistenza di un corpo fisico e di un ambiente esterno è una condizione costitutiva, imprescindibile, perché si diano menti.

Il valore dell’ambiguità
Pur condividendo queste critiche, Hustvedt va oltre: «Non credo che il “corpo” sia una semplice macchina discreta di parti funzionanti o che possa essere descritto a prescindere dal rapporto con ciò che si estende oltre la nostra pelle, e che comprende oggetti, persone, cultura e linguaggio (…). Non credo nemmeno che le persone siano il semplice risultato della costruzione sociale, esseri assemblati dai linguaggi di una cultura, anche se certo questi contribuiscono a plasmarci (…). Quello che so è che un pensiero affilato ha bisogno di abbracciare l’ambiguità, di ammettere alcune lacune nella conoscenza e di porre domande che non abbiano risposte pronte».

Di qui, la critica alle «illusioni della certezza», cioè alla pretesa che siano già stati risolti «i misteri biologici della genetica molecolare, dell’embriogenesi e delle complicatissime dinamiche dei miliardi di neuroni presenti nel cervello, della funzione di questo organo nell’ambito dell’intero sistema nervoso, e del rapporto dell’intero sistema nervoso con un mondo abitato da altre persone, animali, vegetali, minerali e oggetti fabbricati dall’uomo». Anche perché, come Hustvedt rimarca con un certo sarcasmo, queste illusioni e pretesa di «certezze» sono state sovente utilizzate per fornire argomenti alla discriminazione di genere, diffondendo «favole evolutive» sulla presunta fragilità delle donne e sulla mitologica hybris del sesso maschile.