Sono riprodotte nel prezioso volume Laccabue Ligabûn Ligabue (Edizioni del Maestro dell’E.S., 1977) alcune incisioni che illustrano un libro tedesco di fine Ottocento dedicato agli animali selvaggi. Si sa che le tavole di quella pubblicazione fornirono ad Antonio Ligabue (1899-1965) un affidabile riscontro ‘grafico’ alle fantastiche figurazioni di belve che veniva delineando nella sua mente, una sorta di appoggio donde prendere avvio per dar forma autonoma alla sua immaginativa. E del resto, dove, altrimenti, avrebbe potuto osservare tigri e leopardi, a Gualtieri tra gli anni Venti e Quaranta? Forse nemmeno in qualche stento circo di fuorivia che abbia montato il tendone a Luzzara o a Guastalla e affisso qua e là un attraente manifesto nelle piazze dei paesi minori del circondario.

Sta di fatto che, quelle tavole, erano concepite a rappresentare le fiere nel loro ambiente naturale, sia pur riprodotto perseguendo e fortemente accentuando i crismi stereotipi dell’esotico. Il gorilla nell’intrico fitto di foreste pluviali; il leone nelle savane coperte di erbe alte; il boa sul bordo sassoso d’un fiume. E, ancor più evidenti, vi si scoprono gli intenti dell’illustratore deciso a porre il lettore dinanzi ad una, più impressionante che veritiera, descrizione delle feroci lotte che il gorilla, il leone, il boa ingaggiano ogni giorno per sopravvivere. Dei loro ruggiti, delle urla belluine, dei sibili e dei fischi echeggiano le foreste e risuonano sulla pagina. Nel loro austero bianco e nero, quelle incisioni ottengono una resa drammatica della vita delle fiere, delle condizioni estreme ove si gioca ad ogni ora il tutto per tutto, uccidere o morire.

Ligabue assume questo presupposto e lo dipinge ricorrendo a smaglianti colori. Prendo in considerazione Il re della foresta, una grande tela (cm. 190×250). L’erba della savana ingiallita dalla calura estiva, è un intreccio di fruste arcuate donde balza improvviso il leone. La criniera folta, quasi una corolla pettinata crine a crine in punta di pennello, che al centro, come lo sbocciare di un fiore velenoso, si apre, fatale bocca, le fauci spalancante, la lingua rosea, antiporta d’una gola oscura, laggiù, pronta ad ingoiare. Il boa ha avvolto il leone nelle sue spire, lo circuisce un tentacolo verde smeraldo decorato a ovali dorati, ornamento enigmatico, geroglifico foriero di morte. Alza la testa il boa, agita veloce la sua lingua bifide e tenta di colpire con un morso al muso il leone che, con gli artigli d’entrambe le zampe anteriori, sta per calare un doppio colpo letale sul corpo viscido del serpente. Lontano, sul fondo del quadro, quattro antilopi corrono veloci e impaurite, ormai prossime al riparo che offre loro un rigoglioso boschetto. Il cielo è azzurro, disteso sul bordo superiore della tela, indifferente all’orrore. Ma è il primo piano del quadro che offre un complemento essenziale al significato della scena principale. In uno smottamento del terreno, numerose formiche brulicano tra le ossa di uno scheletro umano, ne percorrono il teschio, sostano tra la bianca, rada dentatura, fan ressa entro le calcinate costole.

È bene tener presente che le formiche raffigurate qui mentre portano a termine la loro opera di spolpamento, non stanno a conferma dell’ineluttabilità della fine e il loro affaticarsi non si esaurisce nel cooperare esse alla estrema riduzione a polvere di quella spoglia umana.

Cesare Zavattini ha preso nota di un convincimento espresso da Ligabue quando “spiegò che vicino alla morte/ci vuole sempre qualche cosa di vivo/solo così non si muore mai”. In questa grande tela, allora, ove trovi la esaltazione della vitalità animale, la forza, l’energia di poderosi corpi dipinta nel fastigio rutilante di accesi colori che luccicano in un sole equatoriale della mente, è in realtà svolto e rappresentato l’antico tema del memento mori. Ricordati che morirai: una meditazione sulla morte è questa tela di Ligabue. È la riflessione costante che costituisce l’argomento delle opere sue maggiori. Esse si interrogano, stante la testimonianza di Zavattini, sul ‘superamento della morte’ sancito dalla inarrestabile continuità della vita. Un pensiero che stupisce Ligabue conferendo alla sua pittura quel che di attonito e di glorioso insieme che la distingue.