In un suo articolo recente, Roberto Cotroneo ha messo in risalto ciò che tutti sanno, ma di cui pochi parlano apertamente.

Nonostante il moltiplicarsi di festival, rassegne, saloni del libro e il loro successo di pubblico, si registra nel nostro paese «un netto arretramento in termini di copie di libri (e di giornali) vendute, di chiusura mentale, di banalizzazione, semplificazione dei problemi».

Il fenomeno, dice Cotroneo, è legato alla riduzione della funzione degli intellettuali a gioco di società, a un riempitivo dei tempi morti, a un girovagare, in cui si racconta il proprio privato, che sposta il loro impegno «da un piano letterario e politico a un piano egocentrico, autoreferenziale, effimero e psicoanalitico».

L’associazione della psicoanalisi alla banalità e all’effimero, è, forse, dovuta al contemporaneo lancio del nuovo libro di un analista, nota «firma» del giornale che ha ospitato l’intervento di Cotroneo.

Il libro contiene affermazioni del tipo: «Il desiderio sessuale non è mai del tutto piegato alla legge della riproduzione sessuale»; «Il bacio è una discesa veloce di scale, di valico di montagna, di dirupo sul mare».

Non è colpa della psicoanalisi se i media promuovono la sua banalizzazione, commercializzazione, come di ogni forma di cultura e di sapere.
Il discorso psicoanalitico è parte integrale del pensiero critico.

Dà profondità, intensità e carnalità all’esperienza umana, la sposta dalle sabbie immobili del comportamentismo al terreno fertile di un agire non dissociato dal desiderio, dal sentimento e dal pensiero, la colloca nel vivere come opera creativa dell’uomo.

Erede del pensiero tragico, ha il suo baricentro nell’elaborazione del lutto, nel piacere della vita che apprende dal dolore e nell’esperienza onirica (luogo della compenetrazione delle due «logiche» antinomiche della nostra esistenza).

Il pensiero critico non ama le grandi anonime platee, ma l’intimità del dialogo e della conversazione, vive nella costante dislocazione della visuale e della prospettiva, nella formulazione di idee e concetti che amano accostarsi all’incertezza, sostare in essa, non chiudersi in una formula che più è definitiva, più priva di senso è.

Anche i pezzi incompiuti di saggezza antica, giunti a noi scritti sulla pietra o su pergamene e papiri, tanto eleganti nella loro involontaria sinteticità, sono parole vuote quando si usano come strumenti apodittici. Diventano parole piene quando il loro potere di allusione evade la formula perfetta, in cui la nostra retorica vuole rinchiuderle.

La loro potenza, nel senso sia della forza, sia della ricchezza di possibilità, deriva dalla tensione che si crea tra il parlare della loro presenza e il silenzio della loro eclissi.

Le case editrici, i giornali e le reti televisive più interessate alla diffusione di una cultura utile al mantenimento della «società civile», dovrebbero prendere atto del fatto che la politica della costruzione di figure di richiamo e di spettacolo è controproducente.

Ha allontanato dalla cultura le «grandi masse», che alla lettura e all’ascolto non sono interessate se non in presenza di una rete di connessioni tra realtà costruite da relazioni ravvicinate e paritarie, capaci di filtrare e rendere elaborabili le emozioni e i pensieri, impedendo la loro uniformazione. Ha trasformato gran parte dei «colti» in frequentatori di eventi che poco leggono (anche quando comprano). Ha disperso coloro che non vogliono conformarsi in sacche di resistenza agguerrite (per fortuna) che sono la nostra speranza per il futuro. Lì si parla e si scrive per far circolare, vivere il pensiero, non per venderlo ai supermercati.