Ttip, il pendolo tedesco. L’entusiasmo popolare oscilla verso la preoccupazione critica. E la politica scivola dalle barricate sulla trasparenza fino al consenso transatlantico. Da Berlino ad Hannover ha ripreso fiato la protesta che ha portato in piazza 250 mila tedeschi a ottobre 2015.

Tuttavia, secondo i ricercatori dell’Institut der Deutschen Wirtschaft di Colonia (Iw), chi si oppone al business senza barriere con gli Usa è anche contro quelli europei. Secondo YouGov e Fondazione Bertelsmann ad aprile 2016 «solo» il 56% dei tedeschi riteneva il Ttip un accordo positivo per la Germania; due anni fa era l’88%.
Un dato sintomatico, e un bel problema nella Repubblica federale che – con o senza trattato transatlantico – rimane votata all’export verso gli Usa (con 113,9 miliardi di euro di beni acquistati nel 2015 Washington è il primo cliente mondiale del made in Germany). Un paradosso, ma solo apparente.

Visto da Berlino il «pericolo giallo» è prima di tutto un buon (super) mercato: l’anno scorso le imprese tedesche hanno comprato 91,5 miliardi di euro in materie, beni e prodotti in Cina, mentre Pechino ha raggiunto il secondo posto nella classifica degli importatori.

Poi c’è la questione della trasparenza particolarmente sentita dai tedeschi. Il 28 ottobre 2015 Norbert Lammert (Cdu) presidente del Bundestag ha preteso il coinvolgimento dei deputati nel processo di definizione dell’unione doganale.

Minacciando di non ratificare la decisione, se gli americani avessero continuato a impedire la consultazione delle carte ufficiali. «L’accesso limitato dei documenti alle sole sedi diplomatiche è inaccettabile per il Parlamento come per il governo.

I risultati della negoziazione sul Ttip dovrebbero essere a disposizione di tutti gli Stati dell’Ue» spiegava Lammert appoggiato dal vice-cancelliere Sigmar Gabriel (Spd), impegnato a definire direttamente con Jean-Claude Juncker le regole d’ingaggio nella partita con il dipartimento del commercio di Washington. Sembra passato un secolo. Era solo sei mesi fa.

Allora le carte Ttip stavano chiuse in una stanza blindata sotto i tigli vicino alla porta di Brandeburgo.

L’ambasciata Usa a Berlino era l’unica altra sede di consultazione concessa, oltre a Bruxelles. Oggi sia Lammert che Gabriel sono allineati a Washington, mentre l’unica coerente opposizione è rappresentata da Verdi e Linke. L’ultimo riscontro di piazza: gli oltre 30 mila manifestanti che hanno fischiato il presidente Obama alla Fiera di Hannover, vetrina economica del Vecchio continente. Grazie a Greenpeace e ai suoi leaks di recente pubblicazione, invece, la Süddeutsche Zeitung ha finalmente stampato notizie non più confidenziali.

Dal tentativo di barattare la vendita di auto tedesche negli Usa in cambio del via libera all’agricoltura Ogm, 43% della produzione totale di Washigton. Dai «consiglieri» americani del settore elettrotecnico in supporto ai negoziatori Ue, fino all’industria chimica che detta la posizione a Obama e Merkel. Basf, Nestlè, Coke sono i marchi (registrati) citati nei Ttipp papers.
Mentre nella bozza non c’è traccia del principio precauzionale, cardine scientifico e legale nelle procedure dell’Unione europea, né degli standard ambientali destinati a diventare sempre più permissivi.

Così l’obiettivo è chiudere in fretta i round dei negoziati. Obama mira a firmare il Ttip «entro la fine dell’anno». Merkel almeno a imbrigliarlo «prima del 2017» quando si voterà per il Bundestag. Fra l’incudine e il martello, come sempre, il resto d’Europa…