Missione compiuta, e senza suspence, almeno per quanto riguarda il risultato finale. La riforma della scuola voluta da Matteo Renzi, e praticamente da nessun altro che si occupi di scuola o che nella scuola viva e lavori è stata approvata in terza lettura dalla Camera. Con 277 sì, 173 no e 4 astenuti è la legge meno votata tra quelle del governo in carica. A Montecitorio, l’esito era scontato. persino le proteste in aula apparivano rituali, con la Lega a esporre cartelli «Giù le mani dai bambini» e il presidente di turno, il pasdaran renziano Giachetti impegnato quasi in un corpo a corpo, concluso con l’espulsione del capogruppo del Carroccio Massimiliano Fedriga.

Lo scoglio serio, quello del Senato, il segretario del partito che si definisce Democratico lo aveva aggirato impedendo sia alla commissione Cultura che all’aula di votare. Democrazia parlamentare sì, ma con misura! Per festeggiare, il comunicatore di palazzo Chigi bissa: sintetico su Tweet, quasi prolisso su Facebook. “Centomila assunzioni, più merito più autonomia”è il gioioso cinguettio. Su Fb, invece, la lista dei trionfi, “il più grande sforzo di riforme strutturali della storia repubblicana”, è tanto burocratica e trionfalistica da ricordare i momenti peggiori dei governi Berlusconi.

In realtà Renzi ha pochissimo da festeggiare e lo sa perfettamente. La forzatura al Senato e la rottura di merito con una parte importante della base tradizionale del suo partito sono strappi difficilmente ricucibili. E ieri, alla Camera, si è in realtà prodotta una nuova lacerazione: 39 deputati Pd non hanno partecipato alla votazione, tra cui l’ex capogruppo Speranza, 5 hanno votato contro. Dal plotone azzurro sono arrivati cinque voti a favore, tutti di deputati vicini a Denis Verdini. «Nessun significato politico è una posizione personale», assicura D’Alessandro, che del ruggente fiorentino è intimo. Sarà, ma cinque «posizioni personali» suonano poco credibili. Inevitabile pensare che nel voto sulla scuola si sia consumata una prova generale di quel che probabilmente avverrà dopo la pausa estiva al Senato, quando si tratterà di votare la riforma costituzionale. Del resto, la stessa vistosa astensione dal voto della minoranza Pd, con nomi assenti tanto di rilievo quanto quelli di Bersani e Cuperlo, è probabilmente anche un avvertimento indirizzato al premier in v ista della mano decisiva, quella sulla riforma del Senato.
Del resto, l’approvazione della «Buona scuola», non sembra affatto destinata a riportare la pace nel mondo della scuola. Né l’opposizione sociale né quella politica hanno mai nascosto l’intenzione di proseguire la mobilitazione contro la riforma. Nichi Vendola lo twetta: «Chi ha a cuore la scuola pubblica troverà il modo per cancellare questa vergogna e per ridare fiducia a docenti-studenti».

E’ una minaccia che preoccupa Renzi, non tanto perché tema di dover tornare sulla sua pessima riforma, ma perché nessun provvedimento come questo ha creato un moto di rivolta e rifiuto nel suo elettorato.Ma ogni cosa a suo tempo. Al momento, nonostante l’orgogliosa rivendicazione consegnata a Fb, il cruccio principale del premier sono proprio le decantate riforme. Quella della Rai è dietro l’angolo, e andrà in porto senza sforzo. ma solo perché frutto di un accordo con Berlusconi che non mancherà di irritare ulteriormente una parte della sua base. Su quella del Senato, il fiore all’occhiello, gli auspici di ieri sono invece pessimi. Il rinforzo verdinianno arriverà, ma una riforma della Carta permessa solo dal voto di Verdini e soci non è quanto di meglio per riconciliare gli elettori del Pd con il vulcanico segretario-presidente. E la minoranza Pd non pare affatto pronta, stavolta, ad arrendersi senza ottenere nulla in cambio.