«Il Pd è tornato ad essere il primo partito italiano con quasi il 20% del consenso», annuncia Nicola Zingaretti. Politicamente è il vincitore delle elezioni. Ma solo perché chi perde meno degli altri, o meno di quanto aveva temuto, può dirsi vincitore. Il 20% è un calcolo grossolano, fatto sommando le percentuali di regioni di dimensioni e proposte politiche diverse. Così come l’altro dato che fornisce il segretario Pd in conferenza stampa, secondo il quale «le forze dell’attuale maggioranza sono al 48,7%» e dunque batterebbero di oltre due punti percentuali quelle di centrodestra è un altro conteggio quanto meno azzardato. Perché costringe ad arruolare con i giallo-rossi di governo tutte le liste semi civiche e personali, spesso e volentieri tutt’altro che di centrosinistra, che hanno appoggiato i candidati presidenti del Pd in Puglia e Campania.

Se si torna ai voti assoluti, si scopre che nelle sei grandi regioni che hanno votato per scegliere i presidenti e i consiglieri, il vincitore di queste elezioni in realtà ha perso consensi netti, ovunque. Rispetto alle regionali di cinque anni fa, il Pd perde l’8,7% dei voti di lista in Puglia e Toscana, dove si afferma come primo partito, il 9,8% in Liguria (malgrado l’abbinamento sotto le stesse insegne con Articolo 1) dove si piazza secondo, perde il 10,2% in Campania dove comunque supera tutte le altre liste, perde il 16% dei voti assoluti nelle Marche dove si conferma primo partito ma viene sconfitto nella corsa alla presidenza e perde il 20% in Veneto dove come tutti i partiti cede flussi in uscita a Zaia, che conquista ovunque.

Questo arretramento nei voti assoluti del Pd si verifica anche a fronte di un aumento degli elettori complessivi rispetto alle regionali di cinque anni fa, in tutte le regioni. Se l’arretramento si nota di meno è perché altri, la Lega (ne parliamo altrove) e il Movimento 5 Stelle perdono molto di più. Addirittura i grillini in tre regioni perdono circa il 70% dei voti di lista, non solo in Veneto dove sono tra le principali vittime dell’espansione di Zaia, ma anche in Liguria e in Puglia. In quest’ultima regione perdono a fronte di un voto disgiunto per Emiliano di dimensioni limitate: gli ex elettori 5 Stelle in maggioranza hanno abbandonato tanto la candidata presidente quanto la lista grillina. Pesante la flessione del M5S (ripetiamo che stiamo parlando dei voti veri, non delle percentuali) anche nelle Marche (-52%), Campania (-40%) e Toscana (-45%; qui il M5S ha lasciato per strada in cinque anni 54mila voti senza intercettare alcuno degli oltre 400mila nuovi elettori).

L’analisi del referendum, guardando ai dati per ciascuna delle 107 provincie italiane, conferma che l’astensione ha inciso in maniera favorevole sulla vittoria del Sì. L’affluenza nazionale, lo ricordiamo, si è fermata al 53,8% – un buon risultato al confronto con i referendum costituzionali precedenti, ad eccezione di quello pro o contro Renzi di quattro anni fa. I Sì hanno vinto con il 69,6% sul territorio nazionale. Ebbene, nei 22 capoluoghi di provincia dove il Sì ha stravinto con un dato superiore al 75% l’affluenza media si è fermata al 48% (vale a dire che è stata di oltre cinque punti più basa dell’affluenza media nazionale). Questi capoluoghi ultras del Sì sono quasi tutti al sud – il record nella provincia di Crotone dove il taglio dei parlamentari ha ricevuto l’81,9% dei consensi – in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, unica eccezione Bolzano.
Invece nelle 15 provincie su 107 dove il referendum ha fatto segnare meno del 65% dei Sì, l’affluenza media è stata del 58,4% (vale a dire oltre dieci punti in più dell’affluenza media nelle provincie campioni del Sì e quasi cinque più della media nazionale). Queste quindici provincie dove il No è andato meglio (sopra il 35%) sono invece tutte al Nord, con l’eccezione di Roma e Cagliari.

Questo significa che c’è una correlazione negativa, sebbene debole nel totale del dato di tutte le provincie (coefficiente di correlazione di Pearson -0,289) tra l’affluenza e il Sì. Tradotto in una valutazione politica può significare che gli elettori favorevoli al taglio dei parlamentari si sono dimostrati più motivati di quelli contrari, recandosi più volentieri alle urne. A questo dato bisogna aggiungerne un altro sul totale delle schede bianche. Un dato piccolo (le schede bianche sono state 218 su oltre 26milioni di voti) ma forse non così insignificante. Perché nel confronto con i due referendum costituzionali precedenti (2016 e 2006) si tratta di un aumento percentualmente rilevante (rispetto al totale dei voti nelle due consultazioni). Nel caso del referendum sulla riforma costituzionale Berlusconi le schede bianche erano state lo 0,3% e nel caso del referendum Renzi lo 0,2%; stavolta sono arrivate allo 0,8%. Si trattava e si tratta di referendum senza quorum di validità, ma questa volta c’era l’abbinamento con altre elezioni. Il dato delle schede bianche è quasi omogeneo a livello nazionale, si mantiene sullo stesso livello in percentuale anche nelle regioni dove si è votato per il presidente ma scarta verso l’alto in Toscana (2,7% di schede per il referendum non segnate) e in Puglia (1,7%), regioni dove il richiamo delle urne è stato tutto per la sfida tra i due principali candidati alla presidenza.

Infine può essere interessante mettere in relazione il risultato del Sì nelle 37 provincie delle sei grandi regioni che sono andate al voto per le regionali e il risultato dei 5 Stelle in quelle provincie. Grandi città dove i grillini hanno ovunque perso, dal -17,13% di Genova al -14% di Ancona (i maggiori crolli) al -2,24% di Brindisi e – 6,41% di Lecce (cali più contenuti). In maniera non sorprendente si nota che il Sì è andato meglio lì dove i 5 Stelle hanno perso meno, come le due provincie della Puglia appena citate, come a Salerno e ad Avellino. Mentre è andato meglio il No dove i 5 Stelle hanno perso percentualmente di più, come in tutte le provincie liguri. Anche in questo caso c’è una correlazione negativa debole (coefficiente di correlazione di Pearson -0.322) tra le percentuali del Sì e le percentuali di voti persi dai 5 Stelle. Come a dimostrare che se il taglio dei parlamentari ha vinto senza straripare lo si deve alla crisi del partito di Crimi e Di Maio.