La Commissione Lavoro del Senato ha approvato la delega lavoro: il Jobs Act modificato dall’emendamento sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti così si avvia verso l’Aula, dove verrà votato martedì prossimo. Maurizio Sacconi, Ncd e presidente della Commissione, parla di «giornata storica». Secondo l’ex ministro del Lavoro del governo Berlusconi, infatti, ieri è defunto l’articolo 18. Il Pd invece resta diviso, a tratti nel caos, ma il dorso convintamente renziano che lo guida è già pronto a festeggiare con Sacconi e Pietro Ichino.

Tutti gli 8 componenti Pd della Commissione del Senato hanno votato sì alla delega, mentre Sel e M5S si sono alzati al momento del voto, e Forza Italia si è astenuta. Per quanto riguarda il Pd, c’è solo da sperare nella Camera, e nel pressing ininterrotto di alcuni esponenti critici. Ieri Matteo Orfini, presidente dell’assemblea nazionale del partito, ha parlato della «necessità di correzioni importanti al testo», mentre l’ex segretario Pierluigi Bersani ha citato «intenzioni surreali» che avrebbe visto nell’azione del governo.

Ma soprattutto resta agguerrito Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera: luogo dove il Jobs Act è atteso una volta licenziato dal Senato. In una intervista al Sole 24 Ore, ieri ha notato che questa volta l’iter delle tre letture si concluderà al Senato («al contrario di quanto è avvenuto con il decreto Poletti»), e che quindi se si vorrà «stare nei tempi stabiliti», ovvero entro fine ottobre, il Senato dovrà «ratificare le modifiche che proporremo alla Camera».

Damiano intende introdurre cambiamenti su «demansionamento e videosorveglianza», ma anche «sull’articolo 19 dello Statuto, sulla rappresentanza». Sul nodo chiave, quello dell’articolo 18, per ora preferisce non dichiarare se presenterà emendamenti o meno, perché prima vuole «che sia definita la posizione del Pd»: nella direzione del 29 settembre, ma pure attraverso una riunione ad hoc di tutti i parlamentari Pd con il governo, che ha richiesto proprio ieri con una nota.

Se il Senato non dovesse ratificare le modifiche della Camera, «potrebbe avviarsi un ping pong», spiega Damiano, che moltiplicherebbe i passaggi, allungando i tempi. Certo, dall’altro lato il premier avrebbe sempre pronta la carta, già minacciata e per ora tenuta in caldo, del decreto d’urgenza: Renzi ha già chiarito che nel suo progetto il Jobs Act deve essere approvato entro la fine di ottobre, per arrivare entro marzo ai decreti delegati. Che, va ricordato, prevedono solo un passaggio consultivo alle commissioni competenti, e nessun voto in Aula.

Non è detto però che gli “scontenti” del Pd saranno disposti ad accettare il diktat della maggioranza, quando si sarà fatto un punto alla direzione del 29: potrebbero procedere, in sede di voto parlamentare, a titolo personale. «Ciascuno di noi valuterà come comportarsi, come è già avvenuto con la legge elettorale – ha concluso il presidente della Commissione Lavoro – È in gioco il patrimonio di valori della sinistra». Ma potrebbero essere solo generose testimonianze di bandiera, tanto più vista la spregiudicatezza del capo del governo nel cercare il sostegno di Forza Italia, quando serve.

Ieri comunque dallo staff di Renzi si è fatto sapere che all’ultimo incontro con Berlusconi, in effetti leader di Fi avrebbe offerto il suo sostegno, rifiutato però dal premier. Ma ogni giorno ha il suo affanno, e si sa che Renzi preferirebbe optare per la soluzione Sacconi/Ichino, che elimina il reintegro.

Alcuni esponenti del Pd hanno già chiarito la propria posizione, andando oltre l’ambiguità della formula della delega, che lascia aperte entrambe le possibilità: mantenere il reintegro, o sostituirlo con un risarcimento. Alessandra Moretti, dall’europarlamento, invita il Paese a «farsene una ragione: l’articolo 18 è stato superato dalla realtà». E propone uno scambio: «Ammortizzatori sociali e tutele crescenti, in cambio del reintegro».

La battaglia, a questo punto, sarà sull’interpretazione della formula ambigua della delega. Anzi, a rigore, poiché il testo non introduce un nuovo contratto di inserimento a tutele crescenti, idea originaria del Pd, ma un «contratto indeterminato a tutele crescenti» (che quindi sostituisce quello attuale), potrebbe aver ragione il duo Sacconi/Ichino, visto che in effetti non si cita mai il reintegro.

Sacconi infatti ieri dichiarava, in siciliano, al Corsera: «Comu finisci, si cunta, se ne riparla quando tutto sarà finito. Io festeggio già ora, altri non mi pare lo facciano».