«Da quando si è insediato» il governo «gli italiani sono più indebitati e isolati nel mondo», «l’occupazione è diminuita, la crescita si è fermata, l’insicurezza e l’illegalità si sono accresciute». Ieri al senato il capogruppo Pd Andrea Marcucci ha depositato il testo della mozione di sfiducia al governo gialloverde. Non è una mozione di censura, l’unica formalmente ammessa nei confronti di un sottosegretario, ma che avrebbe forse raccolto anche i voti dei 5 stelle e avrebbe finito per far loro un regalone, mandando a casa Armando Siri come richiesto da Di Maio e i suoi. E però perpetuando il teatrino del conflitto fra i due alleati o e la sostanziale unità per tenere in vita l’esecutivo. «In Italia non c’è più un governo», ha ripetuto ieri «sono attaccati alle poltrone con la colla».

Nelle ultime ore il Pd ha alzato il livello dello scontro. A Roma per oggi ha organizzato una manifestazione contro il blocco di tre fermate della metropolitana, si moltiplicano gli attacchi «contro il caos sul Salva Roma» (Massimiliano Smeriglio), la sfida sulla partecipazione ai cortei del 25 aprile (Emanuele Fiano). E oggi pomeriggio Zingaretti tuonerà contro le infilitrazioni criminali da Castelvetrano (Trapani) comune sciolto per mafia e feudo del latitante Messina Denaro dove il centrosinistra schiera a sindaco Pasquale Calamia, minacciato dalla mafia.

Quanto alla mozione di sfiducia contro il governo, Zingaretti sa che ha poche possibilità di essere approvata. L’obiettivo è un altro, ed è duplice: vuole riconquistare la scena al Pd e denunciare in campagna elettorale – la mozione verrà calendarizzata prima del voto del 26 maggio – l’opportunismo M5S e la fine del partito dell’«onestà onestà».
Il testo è una requisitoria contro gli «inconsistenti risultati sul versante della crescita». Un elenco di cifre che certificano il pessimo stato di salute del paese: un Documento di economia e finanza che «ha evidenziato un quadro allarmante di una finanza pubblica tornata fuori controllo», «l’indebitamento netto che dalla previsione del 2% di dicembre 2018 è aumentato al 2,4 per cento», un peggioramento che «rende certa, per stessa ammissione del governo, l’attivazione del taglio della spesa, previsto dalla legge di bilancio 2019, di due miliardi di euro, tra cui 300 milioni per il trasporto pubblico locale». Il Pd descrive lo stallo gialloverde: «Da mesi l’azione di governo è ormai paralizzata da contrapposizioni e veti incrociati tutti interni alle forze di maggioranza, orientati esclusivamente a lucrare un interesse elettorale, a scapito della funzionalità delle amministrazioni centrali dello Stato e della tempestività ed efficacia nella gestione dei più delicati dossier all’ordine del giorno».

Ma il passaggio cruciale, il core business della sfiducia, è il caso Siri, che pure non viene nominato: «La delicata situazione internazionale, la persistenza della crisi economica e finanziaria», «lo stato di sfiducia delle imprese e il crescente malessere sociale che colpisce ampie fasce della popolazione richiederebbero un governo solido e sicuro, politicamente coeso, libero da condizionamenti privati e immune anche solo dal sospetto dell’asservimento a interessi criminali».

Un’accusa pesante su tutto l’esecutivo, basata peraltro su un’inchiesta ancora lontana dall’aula giudiziaria in cui potrebbe essere verificata. «Nel discorso d’insediamento pronunciato al Senato il 5 giugno 2018», si legge, Conte «aveva posto al centro dell’azione di governo il rafforzamento del contrasto alla corruzione che si insinua in tutti gli interstizi delle attività pubbliche». Per il Pd alla luce di quelle parole «appare a maggior ragione discutibile la scelta di ammettere alla compagine governativa un soggetto già condannato con sentenza definitiva per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte». Reati «la cui natura e gravità avrebbero dovuto sconsigliare la nomina a sottosegretario di Stato o, quanto meno, precludergli il conferimento di deleghe tali da esporlo a un conflitto d’interessi».