C’è modo e modo di perdere. E il centrosinistra abruzzese, ’modello Legnini’ – uomo stimato dentro e fuori dal Pd, per quattro anni vicepresidente del Csm quindi fuori dalle beghe di partito – ha perso bene. O per lo meno molto meglio dei pronostici. Il candidato, con le sue otto liste zeppe di amministratori, con la sua ala sinistra (Sinistra italiana e Mdp con il simbolo di Leu, che pure non hanno centrato il risultato), ma anche con qualche moderato ex di destra, ha messo insieme un 31,3 per cento insperato. Di buon mattino è Emanuele Fiano a fare i primi conti, ad Agorà (Raitre): «In voti assoluti, rispetto al 2018, in Abruzzo il centrodestra guadagna 20.780 voti, il centrosinistra ne guadagna 41.752, i 5S ne perdono 176.841 a fronte di una diminuzione di votanti di circa 143.000 unità». Votazioni diverse, certo, ma il dato è che l’irresistibile discesa del centro-sinistra si ferma nella diga d’Abruzzo.

A rallegrarsene di più è il candidato alle primarie Nicola Zingaretti, titolare di una proposta di alleanze larghe che inverta la rotta degli anni renziani. Sin dalle europee, in una lista aperta che ha lanciato domenica sul manifesto: e che potrebbe far recuperare qualche punto al Pd, che a livello nazionale resta inchiodato al 17 per cento. Quella di Legnini dunque «è la strada giusta», per Zingaretti, «Basta con l’isolamento, con l’atteggiamento borioso sulle alleanze». Per questo lancia un appello per la Basilicata, che andrà al voto il 24 marzo, con un centrosinistra in ordine sparso: «Fermatevi e riflettete. Andare con due, forse tre diversi candidati è un errore politico».

Sull’Abruzzo Maurizio Martina è dello stesso parere. Roberto Giachetti invece no. Ringrazia Legnini via twitter: «Hai fatto un lavoro importante e straordinario». Ma il renzianissmo Ivan Scalfarotto si smarca dall’elogio della ritrovata coalizione: «Penso il contrario di quanto dicono Martina e Zingaretti». Il risultato è incoraggiante grazie al candidato, ragiona, dopodiché la sconfitta dice «che il Pd non esce dalla sua crisi cercando alleanze con pezzi di ceto politico», la scommessa «è rafforzare la propria vocazione maggioritaria e non chiudersi in una ridotta identitaria aggregando poi gruppi e gruppuscoli soltanto in un’ottica di contrapposizione a qualcosa o a qualcuno. Ci abbiamo già provato in passato e, anche quando è andata bene come nel 2006, ci siamo dovuti arrendere al fatto che l’aritmetica può servire a vincere ma certamente non serve a governare».

Senza l’aritmetica però non si governa. E di aritmetica oggi ce ne vorrebbe tanta, anche più del 2016, quando c’era il Porcellum con un mega-premio di maggioranza.

È la stessa linea di Carlo Calenda, espressa con qualche ondivaghezza. A inizio di giornata l’ex ministro twitta a commento del voto abruzzese: «Troppi distinguo e perdite di tempo. Inizio a pensare che forse va davvero costruito qualcosa di nuovo lasciando il vecchio centro sinistra e cespugli vari al loro destino». Poi ci ripensa: «Legnini ha fatto un grande lavoro. E dimostra che ci vuole un fronte che vada oltre il Pd. Perché un risultato così alle europee cambierebbe radicalmente e positivamente lo scenario politico italiano».

L’equivoco del manifesto «Siamo europei» continua: l’ex ministro propone un Pd «aperto» ma chiuso a sinistra. Zingaretti risponde con garbo che i due progetti «sono complementari, non contrapposti». Ieri il suo vice Massimiliano Smeriglio ha aggiunto che «Calenda può essere uno dei protagonisti della ricostruzione. Ma qui nessuno ha il copyright della lista unitaria». Zingaretti poi ha precisato che Smeriglio parla «a titolo personale».
E in serata Matteo Orfini annuncia: «Domani (oggi, ndr) sottoscriverò a nome del Pd il manifesto ‘Siamo europei’». Una scelta condivisa con i tre candidati. Nei prossimi giorni un tavolo con i parlamentari europei e italiani cercherà una sintesi. Come se la natura della lista aperta – in soldoni: centro-sinistra e civismo o fronte repubblicano – debba sciogliersi prima dell’elezione del nuovo segretario.