«La cultura politica deve prendere il posto degli equilibri di potere». In questa osservazione di Sergio Chiamparino c’è il chiarimento di fondo su quello che sarà il Pd post congressuale, in caso di vittoria (probabile) di Matteo Renzi. Sia nella dialettica interna che nel rapporto con i possibili alleati. Nella seconda giornata al Lingotto il presidente piemontese era molto atteso. Apre il suo applauditissimo intervento, lui che gioca in casa, cancellando equivoci e gossip: «Mi hanno chiesto se sono ancora renziano. Io su questa barca ci sono salito fin dall’inizio e non sarei a posto con me stesso, ora che il vento non è più quello delle europee, se dovessi cambiare casacca. Mi sentirei un vigliacco».

Ma il passaggio che scatena l’ovazione dell’affollata platea è quello in cui Chiamparino sottolinea: «Qui, dieci anni fa, Walter Veltroni lanciava la proposta politica della vocazione maggioritaria, che in fondo è la stessa cosa che dire ’egemonia’, di cui ieri ha parlato Renzi. Egemonia non vuol dire andare per forza da soli. Vuol dire essere egemoni nelle proposte politiche».

Insomma le soluzioni ai problemi del paese devono essere forgiate all’interno del partito «popolare e di massa» ed «equidistante fra capitale e lavoro», nell’impossibile equilibrio predicato proprio qui al Lingotto da Veltroni. Nel segno, comunque, di una cultura politica comune. Sia all’interno che all’esterno. Premesso questo, nulla vieta possibili alleanze: «Sarebbe importante se da questo incontro emergesse questa proposta politica forte – sottolinea e chiude Chiamparino – di un Pd che si propone cocciutamente di tornare ad aggregare un’area democratica e di sinistra che dia stabilità al governo e al paese. Sia se si riuscirà a correggere in modo maggioritario la legge elettorale, sia se questo non sarà possibile».

Va da sé che da queste parti le preferenze vanno al maggioritario. E in questo caso è Maurizio Martina, il vice-Renzi congressuale, a dettare la linea: «L’esito del referendum rischia di farci fare un enorme passo indietro, per questo dobbiamo evitare uno scivolamento iper proporzionale dannoso per l’Italia prima ancora che per il partito. Serve una soluzione maggioritaria per governare e sporcarsi le mani».

A ruota un avviso ai naviganti: «A chi pensa di dare una prospettiva al centrosinistra senza il Pd, sappia che senza questa comunità il centrosinistra non ha futuro, senza il Pd non si battono le destre. Noi non abbiamo l’ansia dell’autosufficienza, ma dell’apertura al cambiamento». La vecchia parola magica. Cui ora si è affiancata, per forza di cose dopo il 4 dicembre, l’altra parola magica. «Collegialità».

Nel lodevole tentativo propagandato dall’ex caro leader «di costruire insieme la mozione congressuale, un testo scritto dal basso», i 12 gruppi di lavoro su altrettanti temi (il partito; la società aperta ai tempi del populismo; Europa e Mediterraneo; capitale umano, scuola, università e ricerca; lavoro di cittadinanza; istituzioni e pubblica amministrazione; welfare e salute; nuova economia e fisco amico; diritti, legalità, giustizia; crescita e Mezzogiorno; cultura, identità e cittadinanza; città e territori) lavorano pancia a terra negli intervalli delle plenarie. Il loro problema è che gli assi cartesiani sono già definiti in partenza, lo certificano la presenza e gl interventi di quasi tutto il governo «Renziloni», da Padoan a Poletti, da Pinotti a Boschi e Bellanova.

C’è anche Dario Franceschini, la golden share degli equilibri congressuali interni con l’AreaDem (condivisa con Piero Fassino). Il suo intervento conferma la strada tracciata dalla squadra che sostiene il bomber/bomba Renzi: «Con Walter, dieci anni fa, guardammo avanti. E quando abbiamo sbagliato è successo perché abbiamo guardato indietro. Ora, sulla base di valori condivisi, abbiamo l’obbligo di allargare questo campo». Anche guardando ancor più al centro: «Dobbiamo avere la speranza che nel centrodestra nasca una forza moderata, del resto in Germania faranno la grande coalizione, perché questo dicono i numeri». Per il resto, Franceschini echeggia lo Scalfari della dicotomia «civilizzati vs barbari». E, su questa linea, offre una chiave di lettura del 4 dicembre che fa a cazzotti col buonsenso (e con la sua carica di ministro italiano della cultura): «L’esito del referendum è stato figlio del vento del populismo che soffia negli Stati uniti con Trump, in Francia con Le Pen, in Inghilterra con la Brexit, e in Italia con Grillo e Salvini».

Alla fine, e gli applausi la premiano, molto meglio Emma Bonino, che parla di Europa come nessuno qui: «Le responsabilità di questo impasse sono degli Stati membri, che poi scaricano sulla Commissione Ue i loro problemi interni». Per poi guardare alle quotidiane porcherie: «E’ legittimo che l’Italia rafforzi le sue frontiere esterne, così come è legittimo avere accordi di rimpatrio. Ma stiamo attenti a dove rimandiamo gli immigrati, io lo stomaco non ce l’ho all’idea di rimandarli, ad esempio, in Libia». E, in chiusura: «La strada maestra è l’integrazione, a partire dal lavoro e dai canali regolari per venire in Italia. Ma oggi non c’è una strada legale: ecco perché tutti si fanno passare per rifugiati e richiedenti asilo».

In confronto allo sceriffo Vincenzo De Luca («sicurezza, sicurezza ci vuole, solidarietà a Salvini che non può parlare…».), è molto più di sinistra la storica neoliberista Bonino.