Il Pd farà campagna per l’astensione al referendum del prossimo 17 aprile, sperando di farlo fallire. L’imbarazzo del partito e l’ostilità del governo verso il quesito sulle trivellazioni in mare erano già evidenti, ma non si immaginava al punto da invitare gli elettori a disertare le urne; il Pd è il partito il cui segretario è presidente del Consiglio.
La notizia è arrivata dal sito dell’Autorità garante per le comunicazioni, che da una settimana aggiorna l’elenco dei soggetti politici intenzionati a chiedere spazio nelle tribune elettorali e negli spazi informativi autogestiti sulle televisioni private (per la Rai se ne occupa la Vigilanza). Ieri, ultimo giorno utile, il Pd attraverso il suo rappresentante Lino Paganelli, ha comunicato che si schiererà per l’astensione. Scelta ambigua, ma l’unica possibile per tentare di battere i Sì.
Del resto è proprio scommettendo sull’astensionismo che il governo ha prima evitato di accoppiare il referendum con le prossime elezioni amministrative, e ha poi individuato per il quesito anti trivelle la prima data utile, il 17 aprile appunto, riducendo al massimo lo spazio della campagna elettorale. Campagna elettorale che in teoria è partita da 15 giorni, ma della quale non si vedono le tracce. Oppure si vedono al contrario, come ha denunciato il Movimento 5 Stelle (schierato per il Sì) riferendosi a due «errori» dell’informazione Rai. Il Tg2 delle 13 di martedì scorso ha concluso così un servizio sul referendum: «La trivellazione è considerata un’attività sicura e sulle piattaforme marine italiane non è mai avvenuto alcun incidente», mentre durante la trasmissione Uno mattina su Rai uno ieri si è raccontato agli ascoltatori che solo i cittadini di alcune regioni saranno chiamati al referendum (la Rai si è scusata e ha parlato di «un semplice errore umano» da correggere).
Puntare sull’astensione è la scelta più comoda per il governo, che teme la vittoria dei Sì sia per gli effetti diretti – le concessioni attive entro le 12 miglia marine non potranno essere rinnovate – sia per le conseguenze politiche: perdere al referendum abrogativo non è un buon viatico in vista di quello costituzionale di ottobre. Oltre alla cattiva, o nulla, informazione, gli astensionisti possono contare sulla crescente disaffezione degli italiani per le urne. Negli ultimi venti anni ci sono state otto consultazioni referendarie (abrogative) e solo la più recente, quella del 2011 sull’acqua pubblica, ha raggiunto il quorum indispensabile del 50% più uno degli elettori. Allora andarono a votare 27.638mila italiani (il 54%), mentre nelle ultime elezioni (le europee del 2014) i partecipanti al voto sono stati 28.991mila. Perché il prossimo referendum sia valido bisognerebbe quasi replicare quelle cifre, dovranno votare in 25.620911.

La mossa del Partito democratico è stata duramente criticata dal Wwf Italia – «l’invito a non votare offende i cittadini» – e dal M5S, «il Pd vuole che i cittadini stiano zitti, non si esprimano, se ne vadano al mare piuttosto che esercitare il diritto dovere al voto, tutelato dalla Costituzione» ha detto la deputata Mirella Liuzzi. E ha gettato nell’imbarazzo gran parte degli stessi promotori del referendum, le regioni, che in sette casi su nove sono governate proprio da maggioranze a guida Pd (Veneto e Liguria le uniche eccezioni). Il presidente della Puglia Emiliano, del Pd, è una degli esponenti più in vista del Sì, così come il presidente del Consiglio regionale della Basilicata Pietro Lacorazza, che prima si è complimentato con la presidente della camera Laura Boldrini per il suo invito ad andare a votare, poi alla notizia che il suo partito vuole fare campagna per l’astensione ha commentato: «Vorrei capire dove questa decisione è stata presa, in quale sede di partito. La scelta opposta di tanti consigli regionali è arrivata al termine di un percorso democratico che ha coinvolto gran parte del nostro popolo».
Undici anni fa, quando i politici cattolici e la conferenza episcopale italiana guidarono la campagna per l’astensione al referendum sulla procreazione assistita, gli allora Ds (segretario Fassino, oggi nella prima fila dei renziani) parlarono di «trucco furbesco» e invitarono lo stato del Vaticano a non interferire con le scelte degli elettori italiani. Oggi dovrebbero rivolgere lo stesso invito a palazzo Chigi.