La riforma del sistema nazionale di istruzione, proposta dal Partito Democratico e passata alla Camera, accentua fortemente il dispositivo dell’autonomia scolastica, perseguita dalla fine degli anni Ottanta dai ministri democristiani Galloni e Mattarella e realizzata nel 1997 con Luigi Berlinguer. È lì, nella legge sulla semplificazione amministrativa, che la scuola, da istituzione garantita dalla Costituzione negli articoli 32 e 33, viene trasformata in ente gestore di un servizio d’istruzione, dotato di personalità giuridica. Le istituzioni scolastiche sono diventate espressioni di un’autonomia funzionale, poi sancita dalla riforma del titolo V della carta costituzionale (governo D’Alema) e da allora provvedono alla realizzazione dell’offerta formativa, alla garanzia del «successo formativo» secondo le leggi dell’economia e del marketing. Ancora, nell’annus horribilis del passaggio al nuovo millennio, la legge sulla parità scolastica e quella di riforma dell’ordinamento universitario (il 3+2), entrambe a firma Berlinguer, completano il quadro di una serie di interventi letali per l’istruzione pubblica in cui si inserisce quello sostenuto dal Partito Democratico di Matteo Renzi. E questo a dispetto del loro fallimento registrato da tutte le analisi nazionali e internazionali.

Con un accanimento cieco e irragionevole, forse interpretabile più con le categorie della psicopatologia che con quelle tradizionali della politica, il Pd sta comprimendo gli spazi della discussione su una legge che esaspera le storture dell’autonomia in chiave padronale e autoreferenziale. Le scuole sono destinate a un’ulteriore accentuazione delle differenze sulla base del progetto culturale imposto dai singoli presidi che avranno carta bianca nel definire obiettivi educativi e nel reperire «risorse umane». In questo modo saranno cancellati spazi di democrazia e la libertà d’insegnamento. In nessun paese del mondo civilizzato accade questo. Neppure nei modelli scolastici anglosassoni, tanto cari ai nostri decisori politici e ai loro improvvisati consulenti pedagogisti, un solo individuo al comando può decidere il destino di una scuola.
Anche sull’università il Pd è il mandante, o il complice, dei disegni «modernizzatori» più regressivi. Come dimenticare il contegno sonnolento tenuto nei giorni del varo della rovinosa legge Gelmini?

Per nulla turbato dall’enormità della posta in gioco, il Pd si dimostrò incapace di abitare un orizzonte culturale diverso da quello che avrebbe dovuto combattere. Per conformismo e per ignavia. In seguito, dall’appoggio a Francesco Profumo (esecutore testamentario della Gelmini) attraverso Maria Chiara Carrozza sino alla sbiadita ministra Giannini, questo partito ha coerentemente fatto gravare sull’università e sulla ricerca un diffuso sospetto di inutilità se non proprio di nocività. Questo partito-governo continua a cavalcare il senso comune dell’apertura al territorio, dell’avvicinamento al mondo dell’impresa, della logica premiale e competitiva tra gli atenei, mentre in realtà impone alle scuole un darwinismo sociale. Senza neppure il sospetto che scuole e università debbano essere il luogo di costruzione di un sapere diffuso e di una cittadinanza critica, l’argine alla minaccia dell’esclusione, non una palestra per eccellenti. La sua riforma dell’istruzione è figlia della necessità di allineare i cittadini e le cittadine alla ricetta neoliberista per cui la scelta è limitata a un lavoro senza diritti o a diritti senza lavoro.
Siamo all’inizio di un nuovo Medioevo. Se una strada è ancora percorribile, è fuori dalle parole d’ordine del mercato, lì dove il sapere si espande insieme alle relazioni, fuori dalle agenzie di valutazione, fuori dal calcolo dei crediti, fuori dai vecchi privilegi di vertice e di cittadinanza. Fuori da tutto questo e dentro un progetto condiviso dove il sapere diventa laboratorio di significato e l’intelligenza collettiva si riappropria del diritto a immaginare la vita.