Roberto Battaglia avrebbe dovuto scrivere la Storia del Pci. Era una designazione naturale e scontata, dopo il grande successo della Storia della Resistenza italiana, con le sue tormentate e sofferte edizioni presso Einaudi. Si era disposto a questo compito con grande entusiasmo, convinto di scrivere la storia dell’unico partito «non provinciale» in Italia. Battaglia però non fece a tempo neppure a iniziare il suo lavoro, colpito da infarto nel 1962 e poi scomparso il 20 febbraio 1963. Quella di affidare in seguito il compito a Paolo Spriano fu anch’essa una decisione abbastanza naturale. Per il forte legame con Einaudi e la cultura torinese, per le prove che aveva già dato nella ricostruzione della Torino operaia e socialista. Per il suo stile piano e leggibile che si avvicinava a quello di Battaglia, pur senza la forbitezza letteraria del più anziano storico dell’arte. Spriano, che aveva scritto la sua tesi di laurea su Piero Gobetti nella stessa biblioteca di casa Gobetti dove era stato ospitato durante gli anni universitari. Fino ad allora la storia del partito comunista aveva visto opere per lo più agiografiche o puramente polemiche. Il precedente immediato, l’auspicio e l’esempio di una storia rigorosa e fondata sui documenti era venuta da parte dello stesso Togliatti col libro su La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, in polemica contro la storia concepita come una «ininterrotta processione trionfale». Subito dopo la morte di Togliatti veniva dato un indirizzo risolutivo in direzione di una storia scientifica e fondata su documenti. La decisione era presa nel settembre 1964. Il progetto originario prevedeva un solo volume, ma ben presto ci si rese conto che il progetto era destinato ad ampliarsi. «Al partito si manifestano contentissimi del progetto – scriveva Spriano il 7 ottobre 1964 a Giulio Bollati – e mi promettono l’accesso a tutti i documenti, mentre io ho precisato il carattere scientifico del lavoro e la mia responsabilità personale».

Tra collane e opere collettive

Nello stesso arco di anni (1967-1975), uscivano le Opere di Togliatti curate da Ernesto Ragionieri per gli Editori Riuniti (anche qui la prima idea era stata di un solo volume presso Einaudi, anche qui una rapida presa d’atto dell’impossibilità di contenere l’opera in un volume). E nel 1975 sarebbe uscita l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci condotta da Valentino Gerratana. Parliamo quindi di un arco di anni straordinario, che rivoluzionava completamente le conoscenze sulla storia del Pci. Inoltre erano uscite opere importanti di altri studiosi, erano state avviate collane e opere collettive, c’era stato il fenomeno dell’avvio di un’imponente memorialistica comunista, di grandi dirigenti, di organizzatori come di piccoli militanti. E imponente era anche il numero di tesi di laurea nelle università italiane sui temi della storia del Pci a livello locale. L’opera esce in cinque volumi dal 1967 al 1975. Osservando la distribuzione della materia, notiamo che comprensibilmente col passare degli anni la storia si infittisce, e quello che nel 1970 era stato annunciato come l’ultimo volume si sdoppia in due volumi che in larghissima parte sono dedicati a due soli anni di storia italiana, ma sono anni nei quali la presenza comunista non è più quella di un piccolo partito clandestino. Colpiva subito l’assoluta novità dell’opera, e non solo nel quadro italiano (unica storia ampia e fondata su documenti d’archivio di un partito politico). Ma soprattutto era un unicum nel campo comunista, come rilevava Eric Hobsbawm recensendo il terzo volume. Non solo perché c’era un unico autore in grado di scrivere un’opera così complessa in un arco di tempo così breve (e non le faticose commissioni in uso nei paesi socialisti), ma soprattutto per la qualità e lo spirito di libertà critica e di trasparenza, parte di quello che a Hobsbawm appariva il «miracolo» del comunismo italiano. L’opera prende le mosse dal 1917, cosa che fece un po’ discutere perché saltava tutta la fase delle lacerazioni e dell’impatto che la guerra aveva provocato nel socialismo italiano. Ma il problema più grosso che si poneva da subito era, con ogni evidenza, il caso di Amadeo Bordiga. Nei suoi confronti c’era stata non solo rivalutazione ma anche vera e propria infatuazione nel corso degli anni Sessanta (si pensi solo alla Rivista storica del socialismo, e alla riproposizione di una attualità di Bordiga difficile da sostenere fino in fondo ma consonante con molte critiche alla tradizione gramsciana del Pci). Nelle pagine di Spriano non c’era rivalutazione ma trattazione senza scomuniche postume, con larga comprensione del suo fascino, analoga alla valutazione che Ragionieri compiva nel primo volume delle opere di Togliatti, documentando l’indubbia condivisione della linea bordighiana da parte del giovane Togliatti e la sua riluttanza a distaccarsi da quella piattaforma. La sorella di Bordiga scriveva a Spriano che leggeva al fratello i brani che lo riguardavano: «L’ultima volta che fui a trovare Amadeo a Formia, a sua richiesta gli feci la lettura del capitolo che trattava dell’incontro di lui con Giuseppe Stalin: e a lettura finita gli domandai se a parer suo era tutto preciso; mi rispose che sì, che il resoconto era fedelissimo e che ne era soddisfatto». «Su molte questioni già si stanno risvegliando vecchi dissensi appena sopiti, e carichi di intenzioni polemiche e divisioni politiche attuali», scriveva sempre a Bollati il 31 gennaio 1965, a proposito di Gramsci in carcere, della svolta del 1930 e del «socialfascismo». E proprio su questi temi sarebbero nate le discussioni più aspre all’interno del Pci. Rispetto a quei «vecchi dissensi» riportati alla luce, da parte di Spriano non si nascondono mai i contrasti, anche se a volte prevale la tendenza a smussarli. Una storia non ufficiale, fu il titolo della prima recensione di Giorgio Amendola su Rinascita, titolo che venne letto come una scomunica ma che in realtà era un riconoscimento. Qui è il caso di aprire una parentesi, sulla cosiddetta storia ufficiale del partito comunista, che non è mai esistita in quegli anni. Spriano aveva intervistato molti dirigenti del Pci testimoni di quell’epoca, ma, come spiegava molti anni dopo nell’Intervista, aveva volutamente evitato di sottoporre i risultati del suo lavoro al loro giudizio prima della pubblicazione. E come sappiamo Spriano condivideva con Ernesto Ragionieri la nomea di storico ufficiale del Pci.

Testimoni e memoria

Ma qui si deve completamente rovesciare il discorso, rispetto al senso comune giornalistico di quegli anni. I grandi storici comunisti, ma in generale tutti i grandi intellettuali comunisti, non erano «esecutori» di una linea politica, come spesso veniva affermato, ma al contrario contribuivano a definirla attraverso gli stimoli e le suggestioni che dal loro lavoro emergevano. Poi le critiche di Amendola c’erano e ci saranno in seguito, di grande rilievo ma di altra natura: critica per lo spazio eccessivo dato al rapporto con l’Urss; validità della «svolta» del 1930 pure erronea nelle previsioni politiche generali; infine, il legame necessario tra storia del fascismo e dell’antifascismo. C’erano molte esigenze valide in queste critiche, ma anche estrema difficoltà di attuazione delle medesime, come si vide poi chiaramente nella storia scritta dallo stesso Amendola. Critiche in parte convergenti con quelle di Amendola, se pure da un versante molto diverso, venivano da Pietro Secchia: anche qui era al centro la questione della «svolta». Critiche molto più aspre verranno nel tempo da Giuseppe Berti, a mezza strada fra storico e memorialista, senza mai risolversi a scegliere nettamente una di queste due dimensioni. Sul tema del rapporto con la storia italiana e in particolare della presenza comunista in Italia, osservazioni venivano anche da Ernesto Ragionieri. Senza i provvidenzialismi di Amendola (gli «errori provvidenziali» che comunque facevano crescere il Pci), Ragionieri notava come negli anni della svolta il Pci avesse mutato natura, insediamento geografico, composizione sociale, trasformandosi da partito operaista del Nord Italia in una realtà tendenzialmente di popolo a diffusione prevalente nell’Italia centrale. Comunque la critica fondamentale e più ricorrente nei confronti di Spriano era di avere scritto non la storia del Pci ma la storia del suo gruppo dirigente. Già nelle prime pagine dell’opera Spriano aveva scritto: «La storia di un partito politico non può non essere in primo luogo la storia del suo, o dei suoi, gruppi dirigenti». E poi confermava questo punto di vista a opera conclusa, nella Intervista sulla storia del Pci, a cura di Simona Colarizi, del 1979: «La critica alla mia storia come storia limitata del gruppo dirigente, penso di non doverla accettare per la buona ragione, anzitutto, che ogni storia di un partito politico moderno è, essenzialmente, storia del suo gruppo dirigente. La sentenza è di Franco Venturi e la condivido in pieno. Ma se ciò è vero generalmente lo è ancora di più per un partito comunista che già nasce non solo come organismo estremamente accentrato, quanto a luogo delle decisioni politiche e organizzative, ma ha una sua ispirazione molto rigida, all’origine…». I suoi erano libri di storia politica, ovviamente, ma va anche detto per onestà che la storia politica veniva intesa da Spriano in senso molto tradizionale. C’era pochissima sociologia, antropologia culturale, studio delle mentalità: ovvero tutto quello che emergeva dai nuovi fermenti della disciplina a livello internazionale. C’era innegabilmente la tendenza all’identificazione fra storia del partito e ricostruzione della sua linea politica.

Resistenza e resistenti

Impossibile al riguardo non ricordare la vecchia intuizione di Gramsci su come «scrivere la storia di un partito significa nient’altro che scrivere la storia generale di un paese dal punto di vista monografico per porne in risalto un aspetto caratteristico». A questo arduo e difficilissimo obiettivo Spriano si accostava in parte solo negli ultimi due volumi, che sono a mio avviso i più felici. Mentre non c’era stata la storia del fascismo e della società italiana nei volumi precedenti, qui la storia d’Italia c’era per davvero, e non solo come sfondo delle vicende di un partito. E va anche detto che, per chi leggeva, era anche una valida sintesi della storia politica dell’antifascismo in generale. «Togliatti è stato il più rivoluzionario perché il più realista di tutti», tagliava corto sulle infinite polemiche su «svolta di Salerno» ed esiti della Resistenza, nell’intervista a Simona Colarizi del 1979, mentre il clima ormai stava mutando, si spegnevano lentamente gli ultimi fuochi della contestazione da sinistra e si aprivano nuovi fronti polemici, che Spriano avrebbe vissuto solo nelle forme embrionali e meno brutali rispetto a quelle del quarto di secolo successivo alla sua scomparsa. Abbiamo accennato alla forte passione politica, e va detto che lo stretto legame tra politica e cultura era stato proprio di gran parte degli storici, non solo comunisti, che avevano vissuto l’esperienza della storiografia repubblicana. Va però ricordato che la passione politica, come Spriano e gli storici della sua generazione sapevano bene, non veniva intesa e vissuta come accecamento, ma anzi come stimolo a cogliere meglio e con più onestà i legami tra passato e presente.