Sull’isola butta vento di libeccio. Le onde schiumano alte e i traghetti sono rimasti al sicuro, attraccati alle banchine di Porto Empedocle. Molti han dovuto abbandonare le speranza di raggiungere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli attivisti venuti a scrivere la Carta di Lampedusa, per disegnare dal basso una nuova geografia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno trovato una sala sufficientemente capiente per contenere tutti i presenti, e hanno dovuto così chiedere lo spazio della sala conferenze interna allao scalo aeroportuale.

Solo venerdì, durante la riunione introduttiva dei lavori, i partecipanti registrati erano oltre trecento. Questo primo incontro ha fornito una importante occasione di confronto con gli abitanti desiderosi di raccontare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si trasforma in emergenza. L’intervento della sindaca, Giusi Nicolini, di cui raccontiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rappresentanti degli imprenditori e di alcune associazioni locali.

«La gente di Lampedusa non ne può più di tutti quei politici che vengono qui a far passerella: promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi – confessa Angelo Mandracchia, portavoce degli imprenditori -. Il vostro approccio però è diverso. Non pretendete di insegnarci come fare accoglienza. Non promettete niente. Criticate queste politiche migratorie che scaricano tutto il problema sulle piccole comunità di frontiera. E noi di Lampedusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratorie sono inutili, costose e sconfitte in partenza. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo realizzare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, se fossero invece investiti per una vera accoglienza e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?».

La straordinaria partecipazione con la quale i lampedusani hanno accolto gli attivisti sbarcati nella loro isola da tutta Italia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nordafrica, è proprio la prima nota da sottolineare. Le iniziali diffidenze sono state superate in tanti incontri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavolini dei bar e delle pasticcerie. Un confronto utile per capire come Lampedusa stia vivendo questa sua altalenante e schizofrenica condizione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo. Perché la bella Lampedusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la presenza militare in città è a dir poco asfissiante. Le strada principale che attraversa il paese, la pedonale via Roma, è continuamente attraversata in senso perpendicolare da camionette e da blindati dei carabinieri. Sui muri, si contano a decine e decine i cartelloni con la scritta «Zona militare. Vietato l’accesso». E poi elicotteri, militari in assetto da guerra, guardie di finanza, polizia di frontiera. Impossibile anche fotografare il «cimitero» dei relitti, quanto resta cioè dei barconi che trasportavano i profughi, che ha subito qualche giorno fa un tentativo di incendio da parte di ignoti. L’area è presidiata da militari che allontanano i curiosi. E se spieghi che sei un giornalista ti rispondono: «Proprio per questo».

Ieri invece è stato il giorno della scrittura della Carta, iniziata in una sala sempre più stretta che non ha smesso di riempirsi per tutta la mattinata e che faticava a contenere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma definitiva tutti i capitoli che costituiranno la Carta di Lampedusa e sui quali, vale la pena ricordarlo, è stato svolto nei mesi precedenti un grande lavoro di scrittura collettiva sul web. Una lunga e faticosa giornata di discussioni e di aggiustamenti, tanto per chi forniva il suo contributo alla stesura del documento che dei tanti attivisti impegnati sul fronte della comunicazione per aggiornare blog, siti e social network. Anche perché, le realtà presenti erano davvero tante. Ed è proprio questo il secondo punto da evidenziare. La grande mobilitazione creatasi attorno all’appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa. Associazioni, italiane ma anche europee e nordafricane, laiche e cattoliche, movimenti, sindacati, media indipendenti, singoli cittadini ma anche inviati di amministrazioni comunali , praticamente l’arcipelago antirazzista che ruota intorno ad un Euromediterraneo disegnato sulle «frontiere» della libera circolazione.

«La stesura della Carta è stata un lavoro collettivo eccezionale – ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot -. Il testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica, frutto di uno forzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre, a partire da quelle per la chiusura dei centri di detenzione. Ma anche un periodo in cui affrontare le politiche che l’Europa ha costruito nel Mediterrano. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere».