I fenomeni migratori, scriveva Sayad, esercitano per gli Stati che li affrontano una funzione «specchio», per cui lo Stato stesso, nel rapportarsi alla presenza migrante, è costretto a fare i conti con i propri fondamenti, a estrinsecare un pensiero intorno ad essi, a darne una rappresentazione.

Da questa prospettiva, il volume curato da Maurizia Russo Spena e Vincenzo Carbone, Il dovere di integrarsi. Cittadinanze oltre il logos multiculturalista (Armando Editore, pp.304, euro 25) disegna un’immagine estremamente efficace dell’Italia contemporanea a partire dall’analisi approfondita di un particolare aspetto delle politiche sull’immigrazione.

Oggetto specifico del libro è l’Accordo di Integrazione, introdotto dal «pacchetto sicurezza» del 2009 del governo Berlusconi, con i suoi correlati della Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione, risalente invece al governo di centro-sinistra del 2007, e del Piano per l’integrazione nella sicurezza, Identità e Incontro, del 2010. L’Accordo rappresenta, in effetti, una complessa e articolata prova di «razzismo creativo», con astrusi meccanismi che assegnano e sottraggono punteggi in relazione alla capacità dei migranti, considerati come monolitica categoria da civilizzare, di dimostrarsi sufficientemente docili, obbedienti, «integrabili».

Libro collettaneo che impegna importanti autori dagli interessi disciplinari differenti, Il dovere di integrarsi ripercorre, attraverso l’analisi di questo Accordo, i processi di «cittadinizzazione all’italiana» che riproducono un’asimmetria delle relazioni tra autoctoni e migranti che serve a «misurare» e «selezionare» la popolazione per renderla governabile, in un quadro segnato dall’incapacità, anche a livello europeo, di assumere la crisi della cittadinanza come occasione per riformarne i presupposti.

I contributi che compongono il volume, muovendo da approcci differenti, costruiscono armonicamente un quadro concettuale tanto ricco quanto rigoroso e illuminante, da cui guardare a una piccola Italia fondamentalmente razzista per paura e incapacità di accogliere le trasformazioni che la stanno attraversando. L’analisi giuridica (che ne sottolinea tra le altre cose i profili di incostituzionalità), socio-giuridica, sociologica, ma anche retorico-stilistica dell’Accordo di integrazione, ci restituisce infatti, sfogliando le pagine di questo libro, l’immagine di un paese che, narrando gli «altri» senza mai ascoltarli, produce soprattutto un’autonarrazione fondata su stereotipi e semplificazioni mortificanti anche di se stesso.

In questo quadro, la genericità e l’incongruenza della definizione di «integrazione» formulata dal discorso istituzionale si traduce nell’imposizione di una storia unica (peraltro posticcia, ricostruita da una falsa memoria) che mai tiene conto delle «altre» storie, e rivela una rinnovata strumentalizzazione dell’ideologia della «meritevolezza» come dispositivo di potere. Proprio la contemporanea degenerazione del concetto di «integrazione», funzionale quindi anche alla riscrittura stigmatizzante di parte della storia italiana (quella dell’emigrazione dei secoli scorsi, come quella coloniale), è filo conduttore delle analisi condotte nel libro. In un contesto in cui la visione «reificante e divisionista» delle identità e delle culture è posta alla base anche della costruzione delle politiche di welfare, spiegano gli autori, l’Accordo d’integrazione è rappresentazione plastica di un approccio conservativo e fortemente assimilazionista, che si manifesta ad esempio nell’imposizione di un monolinguismo cieco alla ricchezza delle interazioni e delle esperienze, per cui l’apprendimento della lingua italiana diventa uno strumento di esclusione e non un diritto fondato sull’accesso a spazi e percorsi di interazione.

Nel volume è sottolineato inoltre il ritardo di queste misure italiane rispetto al quadro degli integration agreement di molti altri paesi europei, che le fa risultare ancora più ideologiche, ma anche l’ipocrisia sottesa alla produzione di «accordi di integrazione» in una società in cui i giovani delle seconde generazioni vengono esclusi formalmente dai diritti di cittadinanza sulla base di una visione delle migrazioni che resta prettamente economicista.

Ampio spazio è dedicato anche alla tanto implicita quanto violenta razzizzazione della presenza musulmana in Italia, cristallizzata dai pregiudizi culturalisti che innervano l’Accordo e i suoi correlati, in opposizione a quelle che vengono definite, ancora una volta attraverso una semplificazione identitaria che poco significa, le «radici giudaico-cristiane» della cultura italiana.

La lettura così profonda e complessa che questo libro ci propone dell’Accordo di Integrazione (il cui impatto concreto sulle vite dei migranti è ancora tutto da analizzare), ne mette in luce i risvolti soprattutto rispetto alla realtà italiana: dietro gli obiettivi malcelati di assimilare, controllare, scoraggiare chi arriva da lontano, emerge un estremo bisogno quasi ingenuo, se non fosse cattivo ed estremamente pericoloso, di consolare, rinfrancare e «difendere» una società sempre più fragile. Così fragile, sembrerebbe, da non volere vedere che un’altra «integrazione» è già agita – e non chiede punteggi e non segue modelli di condotta – nei percorsi di soggettivazione posti in essere dai milioni di nuovi/e cittadini/e che vivono questo paese, e cambiano la lingua e i colori delle sue strade come delle sue scuole.