L’accordo c’è, la legge elettorale no. Il Nazareno è vegeto, ma cosa partorirà resta oscuro. Dopo due ore di vertice, con al fianco i soliti Letta e Verdini per gli azzurri, Lotti e Guerini per il Pd, Silvio e Matteo diramano una «nota congiunta» che dire ambigua è niente. Confermano la perfetta sintonia sui principi generali: «Un sistema istituzionale che garantisca la governabilità, un vincitore certo la sera delle elezioni, il superamento del bicameralismo perfetto, il rispetto tra le forze politiche». Solenne impegno, infine, a far proseguire la legislatura sino a «scadenza naturale»: «È una grande opportunità per modernizzare l’Italia».

Se non è paccottiglia, poco ci manca. Nel merito, infatti, l’accordo è solo sull’innalzamento della soglia per accedere al premio dal 37 al 40% e sull’introduzione delle preferenze dopo i capolista, che invece restano bloccati. Quest’ultimo capitolo però è tutt’altro che chiuso, perché resta da vedere quanti saranno i collegi: se resteranno 100 o verranno diminuiti per diminuire la quota dei nominati dalle segreterie e alzare quella dei selezionati col voto dagli elettori.

Nessuna conclusione, invece, sui due punti dolenti: la soglia di sbarramento, che il vertice di maggioranza avrebbe fissato al 3% e che Berlusconi vuole portare al 5% e il premio di maggioranza, da attribuirsi alla lista secondo don Matteo e alla coalizione per il suo predecessore. Ma niente paura: queste «piccole» divisioni non tolgono nulla al giudizio «positivo» sul «lavoro fin qui svolto», né ostacolano il comune intento di varare l’Italicum al senato entro dicembre e la riforma costituzionale alla camera entro gennaio 2015. Favole. Dall’ottava puntata del Nazareno una cosa sola è emersa forte e chiara: che la legge elettorale non c’è e la si dovrà mettere a punto nella commissione affari costituzionali del Senato. È possibile, anzi probabile, che il signore di Arcore abbia assicurato al socio che il suo sì al premio di lista ci sarà e che quello abbia restituito il favore impegnandosi a portare al 4% la soglia di sbarramento. Ma anche questi sono impegni campati per aria.

Ieri la commissione ha nominato la presidente Finocchiaro relatrice unica e fissato il calendario, a partire da martedì prossimo, ma è la stessa relatrice a dire che la velocità dell’iter dipende dalla presenza o meno di un ampio accordo preventivo sui punti chiave. La realtà è opposta. Sulle preferenze la minoranza Pd non potrà che dare battaglia. I «civatiani», una ventina, hanno disertato ieri sera la direzione convocata quasi sui due piedi da Renzi per parlare di lavoro ma anche molto di Italicum. I bersaniani si sono riuniti nel tardo pomeriggio: un vero «vertice di minoranza» che lascia chiaramente intendere la scelta di non arrendersi senza combattere.

Sulle preferenze Berlusconi ha promesso ai suoi di tenere durissimo. Sulla sponda opposta l’Ncd già strepita. «Qui tutto si tiene – sbraita Sacconi – e il premio di lista ha come corollario necessario la soglia al 3%». Non basta. L’ex ministro Mauro starebbe per lasciare con altri tre senatori il gruppo dei Popolari per l’Italia aderendo al Gal, il che altererebbe, pur senza ancora rovesciarli, i rapporti di forza in commissione.

In conclusione sarà una storia lunga, e si concluderà in contemporanea con l’elezione del nuovo presidente, il vero capitolo segreto del summit di ieri. I due tavoli si incroceranno in un gioco di scambi e minacce dal quale, probabilmente ma non più certamente, verranno fuori un capo dello Stato targato Nazareno e una legge elettorale centrata su premio di lista con soglia di sbarramento al 4%. Il capitolo preferenze, che è in realtà il più spinoso, è invece ancora tutto da definirsi, perché la minoranza Pd non intende in nessun caso andare oltre la proporzione del 70% di eletti con le preferenze. Sempre che Renzi non riesca a convincere Napolitano a rinviare le dimissioni fino a maggio. Il pressing sull’uomo del Colle è fortissimo e non è dovuto solo a beghe interne. È chiaro che il premier preferirebbe affrontare gli esami di primavera europei, meno facilmente sormontabili di quelli del mese scorso, con le spalle coperte da un capo dello stato che l’Europa considera di massima garanzia. Ma il riflesso sulle vicende interne è fortissimo. Se Napolitano rinviasse le dimissioni, i lavori della commissione, cioè la vera scrittura della legge elettorale, si svolgerebbero sotto il ricatto delle elezioni anticipate con il consultellum: dunque in un contesto ben diverso da quello dell’elezione del nuovo presidente. Con Napolitano al suo posto, Renzi avrebbe in mano tutti gli assi. Con Napolitano dimissionario, senza poter minacciare il ricorso alle urne, le carte vincenti sarebbero equamente distribuite tra lui e Berlusconi.