Dopo La Fiamma del Peccato del ’44 la tv presenta un altro film di Billy Wilder Viale del tramonto (Sunset Boulevard) con Gloria Swanson, William Holden, Eric von Stroheim, 1950) che a sei anni di distanza chiude il cerchio «nero» di una certa cinematografia americana straordinariamente interessata alla donna e alla sua insubordinazione sociale.

La misoginia di quegli anni, alimentata dalla necessità di ricacciare la donna in famiglia, prende il volto irresistibile di Barbara Stanwyck, che, con La fiamma del peccato diventa l’archetipo dell’assassina frigida del «cinema nero». «Ella lo bacia per indurlo al crimine» diceva lo slogan dei manifesti pubblicitari del film.
Sola, resiste ancora, ultima star, Rita Hayworth, arma di propaganda attentamente controllata: bella, sorridente, simbolo dell’era atomica. Ma cosa può il suo fascino standardizzato davanti ai mostri-donne apparsi un po’ dovunque nella produzione riorganizzata in tempo di pace? Ci penserà il marito regista, e per l’occasione boia, Orson Welles a distruggere il mito quando con La signora di Shangai (1947) inorridirà lo spettatore americano paralizzato di fronte alla metamorfosi dell’ex pin-up che appare, pistola in mano, assassina e calcolatrice, pronta ad uccidere il marito dopo essersi servita dell’amante come nella migliore tradizione del «cinema nero».

Tre anni dopo Wilder non resisterà ad infierire sull’ormai moribondo mito della diva americana e nel Viale del tramonto riproporrà la sua immagine disfatta nelle vesti della grande attrice del passato. Viale del tramonto è la storia di una vecchia vedette del muto che ha dovuto lasciare il set dopo l’avvento del cinema sonoro. Ricca e annoiata si consuma da due anni in un sogno impossibile, tornare a recitare sotto la direzione di Cecil De Mille. L’anziano maggiordomo Max (von Stroheim) suo ex marito e regista, esaudisce ogni suo desiderio e scrive per lei false lettere di ammiratori inesistenti. Nella sontuosa e decadente villa in stile moresco si consuma la commedia-farsa della vecchia Norma Desmond e l’intoccabile dea di una volta si offre al pubblico in tutta la sua patetica follia.

«Norma Desmond è un mito da saccheggiare dopo averlo tirato fuori dalla leggenda per esporlo poi alla luce del sole e ucciderlo – scrive Jacques Siclier su Le Monde – che necessità aveva Billy Wilder a scrivere un film dal sadismo così esasperante? La storia dell’agonia di una vedette del muto poteva essere dolorosa e piena di nostalgia, tragica e non sordida. Lo spettacolo di una donna di 50 anni che acconsente a mostrarsi ostinatamente ridicola per far dimenticare lo charme della sua giovinezza, ha qualcosa di intollerabile: insomma una distruzione, tra le tante grossolana, sfacciata, scoperta».

Eppure l’orrore che vibra nelle parole del critico francese tradisce il rimpianto di chi vede frantumata l’immagine della donna-dea, l’unica degna d’amore che la cattiveria idiota e maschile della cinematografia americana ha distrutto, come se non fosse essa stessa, la star, il prodotto di una cultura patriarcale. È la morte della diva, ma chi è il vero assassino? Registi, sceneggiatori, produttori, apparentemente, o non è forse l’attrice stessa, la donna dea a guidarli in questo sottile gioco di massacro, fino a renderli disperatamente incapaci di ricreare un meccanismo-donna funzionante?

(16 marzo 1977)